La storia di Alessandro Mangogna

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Di Alessandro Mangogna

È passato quasi un anno da quando in quell’ambulatorio ormai così familiare mi è stato diagnosticato un sarcoma alla gamba destra: tumore maligno raro che colpisce 2 persone ogni 100.000. Prima di quel giorno ero uno studente di ingegneria trasferitosi in Olanda per completare l’università. Ero nel pieno delle mie forze di ventitrenne e non mi fermavo mai. Mi sentivo immortale: sempre in viaggio, preso dagli studi e avido di esperienze. Mai avrei immaginato che quel subdolo dolore alla gamba, che ho sottovalutato per così tanto tempo, fosse il sintomo di un male che avrebbe messo la mia vita in standby per più di un anno e che mi avrebbe cambiato radicalmente nel corpo e nell’anima. Il 10 luglio 2015, dopo una vacanza a Cipro ero tornato a casa per godermi in tutta tranquillità l’estate con i miei genitori e gli amici di sempre che tanto mi erano mancati. Mi ero anche ripromesso di andare più a fondo e scoprire quale fosse il motivo di quel dolore persistente alla gamba, che era immune a tutti gli antidolorifici. Feci una risonanza da cui risultò che qualcosa stava crescendo tra il mio perone e la mia tibia, qualche centimetro sopra la caviglia. Fui indirizzato al Gaetano Pini dove feci una biopsia, e dopo due settimane il primario del reparto di chirurgia ortopedica oncologica mi consegnò l’esito spiegandomi che avrei dovuto recarmi in un altro ospedale perché avrei avuto bisogno di altre terapie per estirpare il male, oltre alla chirurgia. Non ricordo molto di quei giorni, mi sembrava tutto un brutto sogno, ma non c’era nessun pizzicotto in grado di svegliarmi. L’ansia mi attanagliava, continuavo a cercare sul web in modo compulsivo informazioni sulla mia malattia e per la prima volta nella mia vita mi sono sentito vulnerabile, impotente. Pochi giorni dopo conobbi la mia oncologa e mi disse che avrei dovuto sottopormi a tre cicli di chemioterapia per evitare che il male si diffondesse in altre zone del corpo e per indebolirlo prima del colpo finale, ovvero la chirurgia. Il mio fisico sarebbe stato messo a dura prova: avrei perso i capelli, avrei dato di stomaco più e più volte, avrei perso quasi 10 kg in circa due mesi, ma mentre mi spiegavano tutto ciò mi resi conto che in quel momento ero ancora forte e decisi che avrei sfruttato le settimane prima dell’inizio della terapia per prepararmi alla battaglia. Mi feci forza e cercai di passare quei giorni nel migliore dei modi possibile: vicino alle persone a me care. Qualche giorno prima del primo ciclo di chemio andai anche a Firenze con dei miei carissimi amici: ci tengo a raccontarlo perché il caso volle che sei mesi dopo (il 4 febbraio, giornata mondiale contro il cancro) finii le mie cure proprio al CTO di Firenze. Superai la chemio con forza e determinazione. I momenti di sconforto non mancarono, a volte anche il solo alzarsi dal letto era difficile: tristezza, rabbia, dolore mi immobilizzavano, ma ogni volta mi rialzavo e durante un ciclo e l’altro ho sempre cercato di uscire il più possibile per tenere il contatto con la normalità e impedire alla malattia di togliermi anche le piccole gioie della vita. Una volta finita la chemioterapia iniziò il periodo più difficile. Avevo raggiunto la mia prima tappa verso la guarigione, ma non mi sentivo per nulla sollevato…i farmaci avevano funzionato? A che tipo di operazione sarei stato sottoposto? Cosa ne sarebbe stato della mia gamba? Avevo sopportato bene le cure fino a quel punto, ma l’incertezza e l’attesa erano strazianti. Andai nuovamente al Gaetano Pini, dove rifeci tutte le analisi per capire come il tumore avesse reagito alle cure. Le analisi andarono bene e ricordo che il dottor Daolio mi disse: «O il tuo è un tumore stupido, oppure la chemioterapia ha funzionato». Ero sollevato e la buona notizia mi ha dato la forza di accettare senza troppa difficoltà anche quello che mi avrebbe aspettato da lì a due settimane: innesto di perone vascolarizzato. Il tutto sarebbe durato circa 9 ore e avrebbe coinvolto più equipe chirurgiche, di cui una proveniente da Firenze. Mi dissero che i tempi di recupero sarebbero stati molto lunghi e non avrei potuto camminare per più di un anno. Decisi quindi di «zampettare» il più possibile nei giorni prima dell’operazione e con la mia ragazza andai anche a Venezia: ricorderò sempre quel viaggio. Il 15 dicembre venni operato. Scesi in sala circa alle 8 di mattina e risalii in reparto alle 9 di sera. Ero stremato, con entrambe le gambe ingessate, dolorante, ancora stordito dall’anestesia, ma la sensazione di felicità e sollievo quando rividi i miei genitori fu un’emozione che mai ho provato in vita mia e che difficilmente proverò ancora. La prima cosa che dissi loro fu: «È finita». Mi sentivo leggero, il male non era più dentro di me, lo avevo sconfitto. Nei giorni successivi il lembo di pelle che mi venne innestato per coprire la nuova tibia andò in necrosi e dovetti aspettare più di un mese prima di un secondo intervento, questa volta al CTO di Firenze. Altro intervento complicato, altre undici ore in sala operatoria, ma questa volta nessuna complicazione: la gamba è salva! La degenza in ortopedia è stata lunga e faticosa, per due mesi la mia vita si è svolta interamente su un letto di ospedale: non ero in grado nemmeno di andare in bagno da solo. Ero lì e mi chiedevo dove fosse finito il ragazzo indipendente e forte di qualche mese prima, guardavo in continuazione vecchie foto con nostalgia, come se appartenessero a un’altra persona, come se la malattia avesse annullato tutto quello che ero stato fino ad allora. Ma mi sbagliavo! Quel ragazzo era ancora lì. Come poteva qualche cicatrice e una caviglia bloccata annullare ciò che ero stato in 23 anni? Tornai a casa e riacquistai le forze. Ricominciai a uscire assaporando ogni piccola cosa con la consapevolezza che nulla è scontato. Ora faccio i controlli ogni tre mesi e sono ancora in stampelle, ma sono felice. Quest’esperienza mi ha tolto molto, ma mi ha dato altrettanto: ora so di non essere immortale, ma allo stesso tempo mi sento più forte e pronto ad affrontare qualsiasi sfida la vita mi riserverà. Ho capito che non ha senso porsi domande a cui non saremo mai in grado di rispondere solo per autocommiserarsi: la vita va assecondata, non ostacolata. Il passato ci ha plasmati, ma viviamo nel presente… Ho smesso di guardare le vecchie foto e ho iniziato a farne altre, più belle di prima! Ho capito con grande difficoltà quanto sia importante chiedere aiuto quando da soli non ce la si fa; il valore dei piccoli gesti: una parola gentile, un abbraccio o una risata. Ho capito quanto possa essere immenso l’amore di un genitore quando ho visto mio padre dormire per terra nella mia stanza pur di starmi vicino quella notte in cui neanche la morfina dava sollievo ai dolori lancinanti e quando ho dormito abbracciato a mia mamma nel piccolo letto dell’ospedale prima dell’operazione. È stato un percorso tortuoso, ma ora riesco nuovamente a guardare avanti: tra poco inizierò la tesi e poi ritornerò in Olanda a finire i miei studi. Volevo rivolgere un ultimo pensiero a tutti i guerrieri che ho conosciuto nei vari reparti di oncologia. È quasi paradossale come le persone in situazioni così difficili riescano a dare il meglio di sé. Abbiamo lottato tutti insieme: donne, uomini, bambini, ragazzi, anziani, italiani, stranieri, chi senza un braccio, chi senza una gamba, ma tutti accomunati da una dignità e una forza d’animo immensa; una voglia di vivere che mozza il fiato ad un osservatore esterno. Alcuni di loro li sento ancora: ci si sostiene a vicenda, fino a che la battaglia non sarà vinta! Con la speranza che i nostri vissuti possano essere d’insegnamento non solo per noi stessi, ma anche per chi ci sta intorno.

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