Di Anna Maria Natoli
La gente dice che quando si è bambini non ci si accorge bene di che cosa ci si ammala, mentre da adolescenti o adulti si è abbastanza maturi per capirlo. Ma quando ci si ammala quando si è a metà, non ancora un ragazzo ma non più un bambino, non si è sufficientemente grandi per capirlo completamente, ma abbastanza per accorgersi che qualcosa non va. A soli 12 anni sono stata travolta da una cosa più grande di me: una malattia che fa paura e che cambia. Certamente nessuno se lo sarebbe aspettato, non è la prima cosa che ti immagini, mai penseresti che da un acuto mal di pancia si sarebbe scoperto un tumore. Alla peggio pensi potrà essere un appendicite.
La mia esistenza è sempre stata tranquilla e monotona, una bambina studiosa e brava a scuola, che ascoltava le maestre. Avevo passato il mio primo anno di medie con buoni voti, i nuovi professori erano soddisfatti e in vacanza con i miei genitori passavo il tempo con gli amici. Tutto sembrava perfetto. La prima settimana d’estate però, un intenso dolore allo stomaco mi colpì. Dopo varie visite mediche, mi comunicarono che sarei dovuta tornare a Milano, a malincuore salutai i miei amici e partii. Non realizzai immediatamente che cosa avevo, non capii i termini tecnici e precisi del medico che mi visitò, non chiesi spiegazioni, non capii neanche che cosa mi stessero dicendo: sembrava tutto così strano e distante da me. L’idea di un tumore non mi s orò nemmeno. Invece il 3 di luglio mi operarono: affrontai tutto con tranquillità, forse anche con un lo di emozione per la bellissima storia che avrei raccontato alle mie amiche, ancora ignara delle difficoltà e della gravità di ciò che mi sarebbe accaduto e che presto avrei sentito sulla mia pelle. Passai la sera prima dell’intervento guardando Cat Woman in televisione. Amo quel lm, e in quel momento sognai di essere come lei: forte, indipendente e decisa. L’operazione andò bene, nessuna complicazione. Mi risvegliai frastornata e ancora non ricordo che cosa accadde per un paio di giorni. Ricordo solo il pianto dei bambini e un profumo acre e pungente. Il 17 luglio riuscii a dare un nome alla mia malattia: avevo un sarcoma al fegato. E così dopo una settimana mi recai all’Istituto dei Tumori di Milano per la mia prima chemio. Realizzai di cosa ero malata solo dopo il secondo ciclo, quando iniziarono a cadermi i capelli e sentivo il mio corpo decisamente più logoro. Le cure furono molti pesanti per me, ma nonostante ciò cercai sempre di andare a scuola e di trascorrere una vita normale. Molte volte, anche dopo la ne delle cure, mi sono sentita chiedere come avevo fatto ad andare avanti, a continuare a ridere e a vivere la mia vita senza rimanere schiacciata dal peso delle dif coltà. Non trovai mai una vera risposta: semplicemente andai avanti, feci ciò che dovevo fare, piansi, mi sfogai, ma comunque cercai di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno. All’inizio ero così arrabbiata con me stessa, mi ponevo domande alle quali non riuscivo a rispondere. Poi, piano piano ho capito. Ho capito che dovevo vivere giorno per giorno e che dovevo trasformare la mia malattia e le mie difficoltà in un punto di forza. Ho capito che la sofferenza mi aveva messa a dura prova, ma mi aveva anche fatto scoprire chi era la vera me. Perché soprattutto nei momenti di difficoltà bisogna stringere i denti e andare avanti. Se poi qualcuno ti sta accanto, è più facile. La mia famiglia mi fu molto accanto, fu il mio sostegno e la mia guida, non mi fece mai sentire abbandonata. Oggi a volte, a distanza di anni, faccio ancora fatica a capire che cosa mi accadde nel 2013. Ricordo che il 24 febbraio quando finii l’ultimo ciclo di chemio, uscii dall’ospedale leggera e felice che fosse tutto finito, convinta che avrei chiuso il capitolo. Difatti è successo proprio così: l’ho chiuso, ma non l’ho dimenticato. La malattia è diventata una parte della mia vita, un ricordo, un evento inaspettato che nel più strano dei modi mi ha sconvolto l’esistenza. Non posso dire che sia un ricordo felice, ma sono più che sicura che di momenti felici me ne ha provocati tanti. Inizialmente quando mi venne l’idea di raccontare la mia storia per Il Bullone, non pensavo a come sarei riuscita a ripercorrere gli eventi di un anno di vita così fragile per me. Se sarebbe stata una cosa dolorosa, o se l’avrei scritto come un ricordo bello e lontano. Comporlo è stata un’impresa, ogni frase mi sembrava sbagliata, poco inerente o troppo vuota per far comprendere appieno il mio vissuto e per fare in modo, senza cadere nell’arroganza e nella presunzione, di lasciare un messaggio, anche se piccolo, che magari faccia riflettere qualcuno, o che magari ispiri o dia conforto a qualcun altro. Grazie a B.LIVE ho realizzato di non essere sola: esistono persone che mi capiscono, che non provano pena per me, non mi compatiscono (anche se è una cosa del tutto naturale), ma al contrario mi comprendono. Una sorta di isola felice separata dalla mia quotidianità, dove posso liberamente parlare di una parte difficile della mia vita. Così come B.LIVE ha le sue tre parole e il suo motto, io con il tempo ho imparato a vivere secondo il mio: «ce la farai». Grazie alla malattia ho imparato ad avere fiducia in me stessa e a vivere giorno per giorno, a essere un po’ come Cat Woman: forte, indipendente e decisa. Il cancro mi ha insegnato tanto e mi ha fatto capire una cosa importantissima: non tutto ciò che sembra la ne del mondo lo è, forse è solo un nuovo inizio.
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