Di Eugenio Fiana
Ride a ripetizione. Ride quando racconta di essersi scontrato con una balena, ride quando descrive i suoi mesi passati a veleggiare in solitario da una parte all’altra dell’oceano. Ma è una risata che fa trasparire un animo indomito: è il primo indizio che ci fa capire quanto Giovanni Soldini, milanese classe ’66, non sia un animale da terraferma. Fin da piccolo si era mostrato insofferente nei confronti della realtà urbana e borghese che lo aspettava, e a sedici anni ha rotto le catene che lo ancoravano a quel mondo palesemente non suo per trovare la propria via alternativa. L’impulso a viaggiare che lo spinse a tentare la via del mare – grazie a un machiavellico mix di virtù e fortuna – ci ha consegnato uno degli sportivi italiani più importanti degli ultimi cinquant’anni. Soldini si è reso disponibile a rispondere ad alcune domande della redazione del Bullone al completo.
Hai mai avuto paura?
«La paura ce l’hai sempre, è una buona compagna. È quella che ti fa vedere i limiti e che ti fa stare attento. Ti dice “stai attento che se no ti cappotti”. Nei momenti in cui non riuscivi più a stare nella realtà avevi dei pensieri che ti facevano ritornare alla lucidità? «La realtà in realtà è quella. È questa che non è la realtà (ride). Perché lì in qualche modo vivi il presente e hai un rapporto diretto con la natura che è molto reale. Hai dei semplici pensieri di sopravvivenza, fai un patto con la tua barca: tu te ne prendi cura e lei ti riporta casa. Non ci sono trucchi».
Qual è un elemento fondamentale per tenere sotto controllo la situazione in barca?
«L’udito è importantissimo quando sei da solo, la tua barca ti parla tutto il tempo e ti dice cosa le sta succedendo. Non potendo stare sempre fuori a causa delle temperature bassissime la vista non basta, devi capire il più possibile usando l’udito: ascoltare attentamente è spesso il modo più veloce per accorgersi di un guasto».
Insomma, tutti i sensi devono sempre essere all’opera. E quando dormi?
«Dormi massimo venti minuti, tante volte. Alla fine sei abbastanza riposato pur avendo dormito una quantità totale di ore minore del normale: se il sonno è frammentato hai bisogno di meno ore di riposo».
Dopo più di cento giorni di navigazione solitaria, che sensazione si prova a tornare alla “normalità”?
«Non ci sono il bianco e il nero. Lasci un modo di vivere per cui provi una sorta di amore e odio. Quando la regata sta per finire non vedi l’ora di tornare a casa, ma quando poi mancano poche miglia all’arrivo ti accorgi che tutto ciò che negli ultimi mesi hai maledetto ti mancherà. Ti adatti a entrambe le situazioni: cambi a seconda che tu sia in mare o a terra, ma in entrambi i casi senti la mancanza di ciò che in quel momento non hai».
Qual è la cosa più sensazionale ed emozionante che hai visto?
«Tantissime cose. Dalle balene alle tempeste con le onde infrangenti, passando per i cieli e i temporali. La natura in tutte le sue forme è sempre stupefacente, riesce sempre a farti capire che è lei a comandare».
Di fronte a tanta bellezza sublime, non soffri il fatto di essere da solo e di non poter condividere con nessuno le meraviglie a cui assisti?
«Da un lato certamente ti dispiace, ma d’altronde quando sei da solo vivi esperienze che in equipaggio non potresti vivere. Da solo sei molto più aperto verso il mondo esterno: se dopo trenta giorni di solitudine incontri un albatro sembra che questo ti parli. Inoltre stare da solo aiuta a creare un rapporto magico con la tua barca».
Possono tutti essere Giovanni Soldini, o c’è una componente agonistica imprescindibile che non è da tutti?
«La sfida è solo una scusa. È un modo per tracciare percorsi che altrimenti mi sarebbero preclusi. Alla base della mia passione per la vela c’è una voglia matta di vedere luoghi fuori dal comune: il desiderio e la volontà sono le uniche discriminanti».
Per concludere: le tre parole di B.LIVE sono Essere, Credere, Vivere. E le tue?
«Devo dire che si avvicinano molto a come interpreto la vita, anzi le sposo anch’io. Quindi Essere, Credere, Vivere sono anche le mie».