Intervista a caterina Uberti, responsabile malattie infettive al San Raffaele

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Di Chiara Malinverno

Caterina Uberti, infettivologa a Milano, si occupa di HIV dal 1984 all’ospedale San Raffaele di Milano. Alla redazione del Bullone ci spiega il motivo per cui scelse proprio questa specializzazione. La definisce una «scelta personale» dettata dal desiderio di dedicarsi alle malattie del versante epatologico, essendo sua madre morta proprio di epatocarcinoma. La domanda viene spontanea: perché allora oggi si occupa di HIV? La dottoressa innanzitutto racconta che anche oggi si dedica alla cura delle malattie epatiche e continua dicendo che l’interesse verso l’HIV è stato quasi una casualità. «Negli anni 80», dice, «si creò una sovrapposizione: nella stessa popolazione affetta da epatiti o cirrosi si verificarono i primi casi di HIV, così occuparsi di questa patologia divenne quasi naturale». Parlare oggi degli anni 80 alimenta il dubbio che l’HIV sia una patologia da riferirsi solo ad allora e che oggi sia da intendersi come una malattia dimenticata. «In quel periodo», racconta la dottoressa, «i reparti di malattie infettive vedevano ricoverati solo  pazienti sieropositivi, mentre oggi accolgono anche altri malati e l’HIV viene gestito con serenità a livello ambulatoriale».

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Questo miglioramento, che la rende orgogliosa e fiera, può essere, secondo la Uberti, uno dei motivi per cui si pensa all’HIV come a un problema del passato. «Il fatto che oggi sia una malattia più controllabile, non significa che la patologia sia da sottovalutare!». Specifica e sottolinea come per evitare questa percezione si debba dare un’informazione corretta, soprattutto ai più giovani. «La giusta divulgazione va fatta nelle scuole, interpellando medici ed esperti», sostiene, e continua portando ad esempio le esperienze di Paesi europei e asiatici in cui «l’informazione sulle malattie sessualmente trasmissibili viene inserita nei programmi scolastici e i giovani ragazzi vengono portati a conoscere i pazienti», ritenendo che parlare e conoscere chi è malato sia uno dei metodi più efficaci per sensibilizzare sul tema.

Ma questa mancanza di informazione in che misura incide sulla diffusione dell’HIV? A sorpresa sembra che soprattutto fra i più giovani, la consapevolezza sia scarsa e approssimativa, l’incidenza dei casi è pressoché costante se non in lieve diminuzione, ad eccezione dei giovanissimi ragazzi omosessuali, popolazione in cui si registra un aumento dei contagi. Attenzione però, questo panorama tendenzialmente positivo non ci deve indurre ad abbassare la guardia.

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Basta un rapporto non protetto o un qualsiasi contatto con sangue infetto, per rischiare di pregiudicare la propria salute ed è quindi sempre necessaria la massima attenzione e provvedere ai dovuti controlli se si pensa di essere stati esposti ad un rischio di contagio. «Per questo, ogni anno», racconta Caterina Uberti, «riunisco i miei figli e do loro tutte le informazioni del caso, accompagnate da una busta con qualche preservativo, perché certe cose vanno dette». Ecco certe cose vanno dette. Ma se si è malati di HIV bisogna dirlo? La dottoressa ci spiega come, a differenza di qualche decennio fa, tutti i suoi pazienti parlino della loro patologia con serenità ad amici e parenti. «E questo», dice, «li rende davvero più sereni, togliendo loro un grande peso». Certo, scegliere di rivelare di essere sieropositivi può esporre ad alcuni rischi, in primis quello di perdere alcune persone che, spaventate, scappano. Secondo la dottoressa però, questo è un rischio che bisogna correre, soprattutto perché è meglio perdere chi non è in grado di sopportare una notizia del genere.

D’altra parte perché l’HIV smetta di essere un tabù è necessario che tutti ne parlino, dai pazienti a chi li circonda, senza pregiudizi, ma solo con la voglia di conoscere.

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