«Le hai prese le pillole» Il documentario sull’ (ab)uso di stupefacenti tra gli studenti USA

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Illustrazioni di: Alberto Ruggeri

Uno dei più grandi meriti di Netflix, a parte aver dato un senso alle nostre vite nutrendoci di serie tv, è sicuramente quello di aver introdotto documentari di qualità. Studiati e ben fatti, i documentari Netflix sono gli unici che riesco a vedere dall’inizio alla fine senza crollare addormentata con la bava alla bocca dopo un quarto d’ora. L’ultimo che ho avuto l’occasione di guardare durante uno dei miei pasti in solitaria (non amo mangiare da sola e compenso con Netflix), è stato «Hai preso le pillole?». Un documentario rivelatore sull’(ab)uso di farmaci stimolanti come Ritalin e Adderall, che spopolano da tempo negli USA. 

All’inizio non avevo ben capito di cosa parlasse, ma mi sono lasciata incuriosire dal titolo che sembrava promettente. E così è stato. Un’ora e mezza di approfondimento sulle due grandi categorie di stimolanti presenti sul mercato americano: l’anfetamina (componente principale del così detto Adderall) e il metilfenidato (di cui è composto invece il Ritalin). I risultati sono gli stessi: una maggiore capacità di mantenere la concentrazione nello studio o sul lavoro e di aumentare quindi la produttività. Il primo articolo sull’abuso di anfetamine per lo studio è stato pubblicato dal Times nel 1937. In un mondo competitivo come il nostro, ogni generazione trova un modo per esaltare le proprie prestazioni, non è una novità. Il problema è: a quale costo? 

Gli Stati Uniti sono il Paese dove, più che in ogni altro, viene diagnosticato l’ADHD, il Disturbo da Deficit dell’Attenzione ed Iperattività. Non solo a bambini e adolescenti con problemi di concentrazione a scuola, ma anche a persone adulte sul lavoro. 

E così ho scoperto che negli USA il consumo di queste sostanze, specialmente tra i giovani, è alle stelle. Viene da chiedersi allora se tutti soffrano almeno in parte di ADHD, ma chiaramente non è così. L’Adderall e i suoi simili vengono usati regolarmente anche tra chi non ne è affetto, nella convinzione di aumentare le proprie capacità cognitive e quindi di prendere voti più alti, essere più veloci nei compiti in classe, produrre di più sul lavoro e riuscire a stare svegli molte più ore del normale. Andando incontro però a gravi effetti collaterali: rischi cardiovascolari e fenomeni psicotici, oltre allo sviluppo di forme di dipendenza. Inoltre, uno studio condotto dall’Università del Pennsylvania, ha dimostrato che l’Adderall non aumenta le capacità cognitive, né fa diventare più intelligenti. Semplicemente procura a chi lo assume senza un reale bisogno, la convinzione di riuscire a concentrarsi meglio e più a lungo: agisce come una sorta di effetto placebo insomma. 

«Si prende la mattina, ci mette 40 minuti a fare effetto e puoi sentirlo: inizi a sudare e le pulsazioni aumentano. Inizi ad avere una calligrafia migliore, più precisa», racconta una studentessa del college, dove i ragazzi arrivano a rubarsi le pillole e dove si spaccia il farmaco su gruppi facebook aperti, dimenticandosi persino che è illegale.  

Anche tra gli atleti e gli sportivi è particolarmente diffuso e rischia di sconfinare nel doping: «È come se la mia mente e il mio corpo si fossero risvegliati», ci racconta un ex giocatore di football della NFL. E quindi se l’Adderall «funziona come uno sparo» e «gli effetti collaterali sono: essere fantastici in tutto», perché privarsene? Dicono che non c’è nulla di male e che una pillola ti darà quel che vuoi: che sia sentirsi bellissima, avere voti alti e una vita sociale al college, o lavorare 16 ore al giorno per 7 giorni consecutivi senza bisogno di dormire. In una società ipercompetitiva come la nostra, sottoposti a una tale pressione fin da bambini, è facile cadere nella convinzione di non farcela senza i farmaci. Siamo arrivati al punto che studenti e lavoratori negli USA si sentano incoraggiati ad assumerli, non come un bicchiere di vino o una canna per scaricare lo stress, bensì come un vero e proprio strumento per migliorare le proprie performances. E mentre i bambini non amano i dosaggi elevati perché dicono di sentirsi strani e nervosi, a partire dall’adolescenza le persone sotto l’effetto del farmaco si sentono grandi e potenti, convinti di aver hackerato il proprio cervello. L’assurdità di tutto ciò sta nel fatto che in un Paese dilaniato dall’abuso di metamfetamina illegale (chi ha visto Breaking Bad ne sa qualcosa, e chi non l’ha ancora fatto, corra a guardarlo) un’anfetamina legale può essere invece pubblicizzata e venduta (sebbene sotto prescrizione medica, ma anche questo sembra non richiedere molta fatica) a madri benestanti, convinte che il proprio bambino soffra di ADHD perché non ha voglia di fare i compiti. 

Insomma l’Adderall è la droga di oggi, ma quando è nato? L’anfetamina fu sintetizzata nel 1929 dal giovane biochimico Gordon Alles, mentre conduceva degli studi per trovare una cura alle allergie. La provò su se stesso, iniettandosi una dose piuttosto alta (50 milligrammi) e ne osservò gli effetti: sensazione di benessere, palpitazioni, insonnia e mente incapace di riposare. Presto venne prescritta e somministrata con il nome di benzedrina, come decongestionante dei seni nasali. E fu subito chiaro che aveva un forte effetto eccitante su chiunque la prendesse, motivo per cui fu spesso somministrata ai piloti d’aereo durante la seconda guerra mondiale e prese piede in seguito anche come antidepressivo e come trattamento per la dieta o i dolori mestruali. Venne inventato poi il Ritalin (metilfenidrato), prodotto da un’azienda svizzera e introdotto nelle scuole per calmare i bambini che soffrivano di «deficit dell’attenzione». È interessante osservare che questo termine fu coniato solo intorno agli anni 80, dopo anni di tentativi per trovare un nome adatto a far sì che i genitori accettassero di buon grado la cura per i propri figli. Infine, nel 1996, un’altra azienda introdusse le anfetamine sul mercato americano per curare il disturbo: il così detto Adderall. Da allora il suo uso è cresciuto in modo esponenziale, tanto da superare il picco degli anni 60. Oggi le prescrizioni di stimolanti rappresentano un business di ben 13 miliardi di dollari. 

Dopo questo lungo discorso su farmaci e anfetamine, viene da chiedersi quale sia la situazione in Italia. Come scrive l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) sul proprio sito: «In Italia il medicinale non possiede un’autorizzazione all’immissione in commercio […]; l’importazione può essere autorizzata dalle competenti autorità solo nei casi in cui sussistano determinate condizioni». Ossia, il medico curante deve dichiarare la mancanza di alternative terapeutiche disponibili sul territorio italiano e presentare una richiesta d’importazione all’Ufficio Centrale Stupefacenti del Ministero della Salute. Sempre l’AIFA, sottolinea che spesso si è riscontrato il ricorso a canali illegali per reperire questo tipo di prodotto e farne un uso non terapeutico; così come alla contraffazione del farmaco stesso, falsificato e venduto online. 

Insomma, ringrazio gli autori di «Hai preso le pillole?» per avermi aperto gli occhi su un tema più che mai centrale nel nostro frenetico mondo. La competizione ci spinge ad eccellere sempre più in una corsa sfrenata verso il successo, che inesorabilmente ci si rivolterà contro. Concludo riportando un’ultima riflessione del Dott. Anjan Chatterjee (cattedra di neurologia, Università del Pennsylvania) «Ai miei tempi si usavano le droghe per distrarsi, oggi le si usa per concentrarsi. Credo che questo la dica lunga sulla nostra società». La dice tristemente lunga. In virtù di produttività e materialismo, qual è il costo che siamo disposti a tollerare? 

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