Intervista a Marco Maccarini – DJ e conduttore televisivo

Autori:

Di Debora Zanni

 

Marco Maccarini, nato a Torino, è sempre stato un bambino empatico, con la voglia di incontrare persone nuove, senza farsi problemi. A cinque anni, alla fine di una festa, salì su un palco e iniziò a improvvisare dei giochi di prestigio che assolutamente non sapeva fare; però riuscì a far tornare indietro molte persone, che si fermarono a guardare incuriositi. Da quel momento Marco iniziò ad apprezzare sempre di più l’esibizione: stare davanti a un pubblico gli è sempre stato semplice. Iniziò così a suonare, a cantare e a raccogliere qualche lira con il suo amico Fausto. Quest’alleanza funzionò molto bene: la gente era attirata anche dal cartello sul quale si poteva leggere «offerta libera per due poveri studentelli».

Con il tempo iniziarono a suonare anche nei locali, più seriamente. Marco ha poi sempre giocato con la comunicazione: in seconda media un suo amico ricevette in regalo una telecamera con la quale, insieme, iniziarono a inventarsi delle parodie e degli sketch. Nell’estate del 1998, grazie ad un’amica, suonarono in svariati locali cittadini, e non persero la voglia di inseguire questo sogno.

Nello stesso anno ebbe l’occasione di fare dei provini per Mtv Italia. Era alla costante ricerca di una reazione da parte degli altri, per lui era una necessità assoluta. L’importante era uscire da quel binario dritto e noioso, che gli causava di un senso di dispiacere, lo vedeva come la perdita di un’occasione. Marco ci ha raccontato che la cosa fondamentale, sua e dei suoi amici, era la necessità di comunicare ma, soprattutto, la curiosità di vedere quello che esisteva, che succedeva, per poterlo trasmettere agli altri.

«Non si può fare comunicazione senza avere gli occhi e le orecchie aperte, è assolutamente impossibile». La curiosità e la necessità di comunicare, secondo lui, sono due cose diverse. Noi pensiamo che solo i «personaggi» famosi facciano comunicazione; Marco, invece, ci ha spiegato che anche tutti noi siamo dei personaggi: noi siamo la somma delle esperienze – anche la più insignificante – che abbiamo vissuto, ogni singolo momento della nostra vita è un mattone di quello che siamo.

Quindi, a seconda dell’attenzione che diamo a questi piccoli mattoncini, la nostra coscienza e il nostro modo di essere cambieranno e diventeranno quello che definia mo «essere se stessi», cioè, il frutto di una costruzione selettiva. Bisogna cercare di ricostruirsi, senza seguire il flusso, ma comprendendolo: «Devi uscire dalle tue mura per esplorare il mondo esterno, ma restando sul tuo cornicione».

Marco prosegue raccontandoci le sue esperienze nel mondo dello spettacolo, riprendendo proprio da Mtv Italia che, apparentemente, passava per essere una televisione ricchissima, strapiena di soldi, in realtà non era così: soldi ce n’erano pochi, e si procedeva con molte cose a basso prezzo. Secondo Marco, la vera forza di Mtv era la gente che vi lavorava. 

Riguardo alla sua carriera e le sue collaborazioni: ha preso parte, insieme a Giorgia Surina, a un programma chiamato Casa J, che aveva come target i bambini. Nel febbraio del ‘99, gli viene comunicato che deve andare a Londra (perché la diretta non partiva ancora dall’Italia) a partecipare a un altro programma, Select. Quindi fu la volta di TRL per cui prese parte a ben 1.100 puntate.

In piazza (San Babila, a Milano) si alternavano ospiti quasi tutti i giorni. «Giorgia ed io eravamo una bellissima coppia televisiva», afferma Marco, «ed eravamo molto empatici»: sapevano che dall’altra parte dello schermo si trovavano giovani dai 10 ai 18 anni, e che dovevano parlare la  loro stessa lingua, infatti la figura del conduttore è un mezzo, un tramite che deve riunire l’emozione presente sul palco con quella del pubblico in piazza, farle condensare e restituirle al telespettatore, a casa. Si possono trovare dei conduttori freddi, che separano le emozioni, ma Marco vive proprio di queste. Ed è riuscito a trasmettere l’emozione persino a un pubblico molto più giovane. Del resto già da piccolo ha avuto la fortuna di giocare con una telecamera, e il mezzo, così, non lo ha più spaventato.

Nel momento in cui si è reso conto, però, che dall’altra parte c’erano milioni di persone, ha iniziato a pensarci, ma un gioco lo ha aiutato a non cedere all’ansia e al panico: «tu sai che dietro la telecamera ci sono delle persone, ma non lo devi sapere nel momento in cui registri», racconta, «la telecamera stessa deve essere il tuo interlocutore, deve diventare tua amica, e siccome non è facile, bisogna allenarsi. Quando ci si esibisce si sa cosa dire, ma a volte  le emozioni ci possono sopraffare, e bisogna trovare un trucchetto per andare avanti. Può capitare anche di inciampare, ma è bello, è emozionante vedere l’emozione: siamo umani, non macchine». Per concludere gli chiediamo quali sono le sue tre parole. Ci risponde: «La prima è sicuramente “perché?” che riassume tutto, è una sorta di augurio di non stancarsi mai di chiederselo, è un modo di approfondire proseguendo nella propria ricerca.La seconda è “positività”. E la terza è, “donna”, perché nella mia vita ha un ruolo molto importante, smuove tante cose, e mi accompagna in un percorso di maturità e di costante consapevolezza».

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