Di Stefania Spadoni
In merito al mio percorso di giovane donna con un tumore, esprimo pareri e opinioni «privilegiati». Me ne rendo conto quando, seduta di fronte a Fedro Alessandro Peccatori, specialista in oncologia medica e ginecologia, uno dei pionieri dell’oncofertilità in Italia, faccio dichiarazioni entusiastiche sull’accesso alle cure e il dottore mi ricorda che «a Milano è più facile» e non in tutto il nostro Bel Paese le cose funzionano come dovrebbero. Ma effettivamente com’è che dovrebbero funzionare? Il tema del quale parliamo è di vecchia data, ma in evoluzione e con prospettive sempre più stupefacenti: la preservazione della fertilità in pazienti oncologiche. La nostra chiacchierata si concentra ovviamente sul mondo femminile che, anche in questo campo, ha vita più dura. Conosco Peccatori da qualche anno, merito di un’amica anche lei sua paziente, che, quando ha compreso che il mio tumore stava diventando qualcosa di più complesso, mi ha scritto esattamente questo messaggio: «questi sono i contatti del dott. Peccatori, PRIMA di fare qualsiasi altra cosa vai da lui».
Prima: ecco la parola chiave ho pensato, prima, dovevo pensarci prima. Ma un modo l’abbiamo trovato. Ritrovo quel pensiero nella mia memoria, quando Peccatori inizia a parlare del tema del tempo rispetto alla possibilità di po
ter attuare le manovre di preservazione della fertilità in una donna con diagnosi oncologica. «Spesso», dice, «dopo la diagnosi, l’urgenza di iniziare le cure è predominantee nonostante la maggiore e cienza dovuta ai progressi della tecnologia, ancora oggi gli aspetti organizzativi legati alla volontà di intraprendere un percorso del genere, sono un problema». Un piccolo moto di rabbia mi sale dentro, sì, non ho ancora perdonato a me stessa di non aver reagito lucidamente dopo la diagnosi e di non aver insistito per raccogliere e preservare i miei ovociti prima di iniziare le cure.
Mi fa arrabbiare il pensiero che nei piccoli centri oncologici non ci sia un esperto di oncofertilità e che una giovane paziente non venga indirizzata ad un percorso che salvaguardi la sua possibilità di essere madre. Ancora u
na volta Peccatori coregge il tiro: «non è necessario che ci sia uno specialista in tutti gli ospedali o in tutti i reparti di oncologia, luoghi dove viene svolto un lavoro importantissimo, è necessario però creare una rete, avere medici pronti e consapevoli, che abbiano chiaro il percorso di ciascuna paziente. Spesso le malattie oncologiche ed oncoematologiche che colpiscono i giovani adulti sono malattie rare, che necessitano la consulenza di uno specialista, che costringono in ospedale per lunghi periodi e che in qualche modo cambiano la vita». È quindi fondamentale che in un momento del genere, in cui la lu- cidità viene a mancare (e anche un po’ la terra sotto i piedi), l’approc- cio del medico al paziente abbia uno sguardo a 360 gradi, miratonon solo alla scon tta della malat- tia, ma anche, per quanto possi- bile, alla tutela della persona oltre la malattia. Il professore continua dicendomi che «alcune malattie oncologiche sono ormonosensibili, ad esempio i tumori del seno, che sono fra quelli più frequenti in età riproduttiva, nei quali l’alterazione dell’assetto ormonale può cambia- re anche la prognosi, o può favorire il loro sviluppo, ed è quindi molto importante studiare l’impatto della gravidanza sulla prognosi oncologi- ca. L’esperienza accumulata negli anni, insieme ai dati della lettera- tura, mi hanno motivato nella scel- ta di creare un reparto dedicato a questo importantissimo tema».
E così è nata l’unità di Fertilità e Procreazione in Oncologia dello IEO (Istituto Europeo di Oncologia di Milano), dove il dott. Peccatori visita e consiglia centinaia di donne che si rivolgono a lui in cerca di una speranza. Accanto alla parola ferti- lità ce n’è
un’altra: procreazione ed è con orgoglio che mi spiega che qui le donne vengono seguite non solo prima, ma anche dopo e ci si pren- de cura di loro in tutti gli aspetti che riguardano la gravidanza, an- che perché c’è un altro tema impor- tante da gestire a cui io non avevo nemmeno pensato e che mi arriva addosso con una forza pazzesca: la contemporanea diagnosi di una neoplasia maligna in corso di gravi- danza. Quando torno a casa conti- nuo a ripensare a questa possibilità che esiste nella vita di una donna di contenere in sé il bene e il male, la vita e la morte e alle azioni ne-cessarie per a rontare tutto questo,l’attacco e la difesa, aggredire e proteggere.
La forza e la determi-nazione di una donna che a rontauna situazione simile, mi commuo- vono. Gli chiedo qual è il target di età delle pazienti che arrivano al suo ambulatorio e mi risponde mol- to tecnicamente che «la candidata ideale (questo termine mi fa sempre sorridere, messo in bocca a un me- dico) è una ragazza giovane che ha tra i 20 e i 35 anni, che deve fare un trattamento potenzialmente go- nadotossico, che vuol dire a rischio di steriltà, e che ha il tempo di rac- cogliere gli ovociti (due settimane), oppure il tessuto ovarico (una set- timana), che sono le due modalità di preservare i gameti». Ma qual èla di erenza? Sono due procedure di prelievo di erenti e la secondaprevede un piccolo intervento in la- paroscopia e in anestesia generale, ma il vantaggio di reimpiantare il tessuto ovarico, rispetto agli ovociti, è che tu reimpianti anche la funzio- ne dell’organo. «Quando si è sotto- posti a chemioterapia, quest’ultima non solo danneggia la funzione riproduttiva, ma purtroppo dan- neggia anche la funzione endocri- na, ormonale.
Congelando solo gli ovociti si può restituire la funzione riproduttiva, ma non quella endo- crina; invece espiantando, conge- lando e reimpiantando il tessuto ovarico c’è la possibilità di restituire a una donna entrambe le funzioni». Mentre risponde a questa doman- da, ricordo molto bene quando mi spiegò la procedura e mi suggerì di tentare. Avevo 28 anni, ero consa- pevole e non volevo rinunciare a una possibile futura gravidanza. Decisi che avrei difeso la mia pos- sibilità di essere madre. Ma cosa succede quando questo accade a un’adolescente, a una bambina così lontana dal pensiero di una mater- nità? Decido, quindi, di incontrare Alberto Garaventa, responsabile dell’oncologia pediatrica del Gasli- ni di Genova e di chiedere a lui. Mi si apre un mondo. Di padri e madri sconvolti e impotenti di fronte allamalattia di un glio. Di speranzaquando viene loro detto che si può conservare il tessuto ovarico della loro bimba. Di necessità perché oc- corre strutturare questo percorso, avere delle linee-guida per agire sistematicamente e in maniera re- golare. Di bisogni perché le spese sono tante e lo Stato non le copre interamente. Di dubbi: in fondo, una bambina che ne sa? Di paure: funzionerà, servirà, è rischioso?
Ho portato a entrambi gli incontri una vecchia copia del Bullone. In prima pagina campeggiano que- ste tre parole: l’attimo, la scelta, il rischio. Peccatori mi fa notare che riassunto in prima pagina c’è tutto quello che mi ha raccontato. «Dopo la diagnosi oncologica: devi coglie- re l’attimo, perché se no non fai più in tempo, devi poter scegliere, per- ché non tutti vogliono preservare, devi sapere che il rischio è quello di fare una procedura inutilmente, oppure che esiste, seppur minimo, il rischio legato alla manovra di raccolta e il rischio dovuto al rinvio delle cure. Il 50 % delle pazienti de- cide comunque di farlo, ma occorre equilibrio tra un giusto investimen- to nella speranza futura e la con- sapevolezza delle condizioni reali. Oggi cominciano a esserci bambini che nascono da donne che hanno preservato gli ovociti, in Italia c’è un primissimo caso di ex paziente oncologica che ha portato a termi- ne una gravidanza dopo il reim- pianto del tessuto ovarico. Alcune donne coraggiose hanno avuto un secondo bambino dopo aver avuto il primo in concomitanza con una diagnosi oncologica. Molte donnepossono fare gli grazie agli ovocitidi donatrici, molte altre adottano. C’è speranza per il futuro. Una speranza da proteggere e tutelare, da far conoscere, da amare, che ar- rivi forte come il primo pianto di un bambino quando viene al mondo.