Di Riccardo Ciapponi
Cara Asia Bibi,
ho sentito parlare molto di te in questi giorni, così ho deciso di scriverti questa lettera, perché ciò che ti è successo mi ha fatto riflettere e volevo condividere con te qualche pensiero. In fin dei conti, siamo simili io e te, entrambi umani su questo pianeta, ma siamo terribilmente diversi perché a te sono stati imposti troppi anni di prigionia, sotto la terribile minaccia di una condanna a morte.
Vorrei scrivere «purtroppo», per attribuire tutto questo a una strana crudele sorte, contro cui nulla si può. Vorrei scrivere «inspiegabilmente», per pulire la coscienza nel mare dell’ignoranza.
Tuttavia un’idea ce l’ho, ed è proprio questa che voglio condividere con te, poiché vedo ogni giorno che tutti noi, per affermare ciò che siamo, usiamo la forte arma del negare ciò che non siamo. Per definirci dritti, neghiamo le storture, per mostrarci intelligenti, disprezziamo gli stolti, per affermare la forza non serve altro che deridere la debolezza. E così via, in un laborioso processo che coinvolge sia i singoli, sia le società, quando assieme cerchiamo un nemico che ci unisca, il mostro che faccia risaltare la nostra normalità. Non è un processo meschino, né crudele, né folle, ci viene spontaneo, codificato nella nostra storia dal dovere definire in fretta i simili dai rivali nella lotta alla sopravvivenza, ma al rapido cambiamento della nostra organizzazione tribale, non è seguito un altrettanto repentino mutamento dei nostri istinti.
Così, dobbiamo badare costantemente a non cadere in questo inghippo, ed aiutarci gli uni con gli altri, quando accecati dallo sdegno o dalla rabbia, non ci accorgiamo che stiamo superando dei limiti ben precisi. La ragione infatti, ci indica proprio la misura oltre la quale non possiamo agire: i diritti che, se universali ed inalienabili, ci rendono tutti liberi. E ogni giorno ancora, in tutto il mondo, ci sono persone che non possono parlare, non possono controbattere, non possono credere, non possono amare, non possono vivere e non possono morire, non possono essere sani e non possono essere malati, perché così hanno deciso gli altri, forti di leggi inique, di tradizioni ingiuste o di culture crudeli, tramandate, accettate e condivise. Ed è con forza che dobbiamo opporci a questo, sfidando l’ovvia consuetudine di accettare il malessere degli altri, spiegando se possibile ma, se necessario, rivendicando il diritto di essere intolleranti con gli intolleranti.
Non deve più capitare a nessuno di vivere la follia di quello che ti è successo Asia, una persona travolta da un fiume di odio che ha straripato gli argini di ogni morale, portando alla tua incarcerazione e persino alla morte di alcuni di quelli che hanno cercato di difenderti. Non si accusino gli dèi, le religioni o le nazioni, sono le persone che fanno questo, siamo noi, stretti gli uni con gli altri a guardare con disprezzo il marchio sulla fronte di Caino, illudendoci, gli uni con gli altri, che non siamo come i reietti, i criminali, gli eretici, i blasfemi, i poveri, i malati, gli omosessuali, i migranti, gli stolti.
Così, cara Asia, ti saluto con la promessa di impegnarmi oggi e domani con tutti i mezzi che ho, affinché il giorno in cui saremo liberi tutti sia sempre più vicino.
Con affetto,
Un essere umano, come tanti.
Immagine in evidenza presa da www.lavocedinewyork.com