Cristina Cattaneo. Il medico legale di Milano che restituisce l’identità ai morti nel Mediterraneo

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Di Eleonora Prinelli

Immagine in evidenza di: Massimo Sestini

«Conosco meglio l’umanità, da quando lavoro con i morti». Faceva più o meno così, la frase di Cristina Cattaneo, che continua a risuonarmi in testa da mercoledì scorso, quando siamo andati a trovarla al Dipartimento di Medicina Legale dell’Università degli Studi di Milano. Non una frase qualsiasi, ma un’affermazione che ti entra dentro e ti spaventa un po’. Perché la morte ci racconta molte più cose sulla vita di quanto crediamo. L’incontro con Cristina Cattaneo, docente di Medicina Legale e direttrice del LABANOF (Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense) era per noi uno dei più attesi del mese e, come previsto, è stato illuminante. Una professoressa, un medico, un’antropologa e paleontologa di valore inestimabile per il nostro Paese. Ci ha dedicato un intero pomeriggio, trascorso a parlare di morti, ma soprattutto di vivi. 

Il Labanof nacque nel 1996 per occuparsi del riconoscimento dei corpi nell’ambito delle morti violente. Sin d’allora la professoressa e i suoi collaboratori si resero conto che a fine anno erano troppi i corpi che passavano per la sala anatomica senza essere identificati, con tutte le conseguenze che ciò comportava. E così diedero inizio a una vera e propria crociata per il diritto all’identità. Ci sono vari motivi per cui è essenziale dare un nome a chi non ce l’ha. Non solo come contributo all’andamento di un’indagine in corso, ma anche per motivi civilistici e per la salute mentale di chi rimane, dei parenti e degli affetti di quel morto. Questo vale per gli italiani, ma anche per gli stranieri. Un migrante di minore età senza il certificato di morte dei propri genitori, non può chiedere il ricongiungimento con i parenti in Europa. Allo stesso modo, la moglie senegalese di un disperso nel Mediterraneo, non ha diritto di vedova senza un documento che attesti la morte del marito. Ovviamente le ripercussioni psicologiche causate dal non sapere cosa ne sia stato del proprio caro, sono terribili. C’è chi cerca la persona amata per tutta la vita, o chi si rinchiude in casa per sempre, senza più un motivo per continuare a vivere. 

Ma andiamo con ordine, poiché per poter capire il presente è necessario conoscere il passato. Cristina Cattaneo ci ha raccontato infatti, che una parte del suo lavoro consiste proprio nello studio di antichi scheletri ritrovati sul territorio dopo secoli e secoli di sepoltura. Sotto all’attuale sede dell’Università di Milano, ad esempio, vi è una cripta che fungeva da ossario quando l’intero edificio era adibito a ospedale, commissionato da Francesco Sforza nel 1400. Il laboratorio oggi studia ben 2 milioni di resti ossei che vanno dal 1400 al 1700 e ci raccontano moltissime cose sul nostro passato. Sapete invece, che in Porta Romana, proprio di fianco alle terme dove oggi i milanesi amano rifugiarsi dal caos della città, vi era un’antica fossa comune? Essa risaliva ai tempi dell’epidemia di peste che colpì Milano nel 1630. Attualmente tutti i gli scheletri che sono stati ritrovati in quella fossa fanno parte della raccolta museale del Labanof, riconosciuta ufficialmente dalla Regione Lombardia. Peccato solo che, dati gli spazi angusti nei quali sono rilegati i loro laboratori («nel sottoscala dell’università», scherza la prof. Cattaneo), sono costretti a conservare gli scheletri qua e là, dove trovano posto. Un po’ sotto ai lavandini delle toilette, un po’ tra le scrivanie dei ricercatori, in attesa di una collocazione più dignitosa. Fatto sta che dai resti ossei di centinaia di anni fa, è ancora possibile estrarre il dna, e questo fa di loro dei veri e propri beni culturali. Grazie ai resti umani, ad esempio, abbiamo scoperto che Milano un tempo era ampiamente multietnica, proprio come sta tornando ad essere oggi.

E qui veniamo all’altra grande area di lavoro del Labanof: il riconoscimento dei cadaveri dei migranti. Negli ultimi 15 anni ne sono morti oltre 30mila nel Mediterraneo, di cui più della metà resta ancora senza un nome. Cristina Cattaneo e i suoi colleghi si battono per il loro diritto all’identificazione, consci del fatto che tutti i morti meritano la stessa dignità. E lo fanno a titolo gratuito, dal momento che non ci sono fondi per riconoscere i migranti morti. Però a livello umano e scientifico, soprattutto per i giovani ricercatori, questo lavoro ha un valore enorme. «Ognuno gestisce la propria etica», afferma la professoressa, e aggiunge «Io, in quanto medico, ho fatto un giuramento: prestare assistenza a tutti i miei pazienti, indipendentemente dalla loro etnia, nazionalità, condizione sociale o credo religioso. Dare assistenza ai morti vuol dire anche prendersi cura della salute mentale dei vivi. Quindi, se ci sono le minime risorse per farlo, si fa». E così, con il minimo indispensabile, si acquistano i test del dna, mentre si cerca di raccogliere fondi. In realtà, il costo di un esame genetico ammonta tra i cinquanta e i cento euro, con 150mila euro verosimilmente, tutti potrebbero essere identificati. Il problema tuttavia, è riuscire ad estrarre il dna da ossa rimaste in acqua salata, talvolta per lungo tempo. E anche, paradossalmente per la nostra epoca social, riuscire a comunicare con le famiglie a chilometri di distanza, perché possano fornire informazioni e dettagli utili al riconoscimento dei propri cari. Senza poi dimenticare il fatto che vi è un enorme vuoto normativo, in tutti i Paesi europei, su chi abbia l’obbligo di identificarli. Intanto però, nei nostri mari, a pochi chilometri dall’Unione Europea, si sta verificando silenziosamente un genocidio di cui nessuno pare rendersi conto.

Forse perché è un processo lento e diluito negli anni, forse perché non sappiamo neanche chi sta morendo. Cristina Cattaneo ha scritto un libro su questo, dal titolo Naufraghi senza volto, perché non si dimentichi il grande disastro che si sta consumando sotto ai nostri occhi, nel Mediterraneo. «Ho voluto scrivere quel libro perché altrimenti fra un po’ di anni non ci ricorderemo neanche più che quel barcone è affondato a 1000 chilometri di distanza da Bruxelles». La professoressa si riferisce alla tragedia del 18 aprile 2015, quando un barcone pieno di migranti affondò a pochi chilometri dalle coste siciliane e in cui si stima morirono circa 1000 persone. In realtà non è neanche chiaro quante ne viaggiassero a bordo, sappiamo solo che erano state stipate in qualsiasi angolo dell’imbarcazione (persino in sala macchine), e che solo in 28 sono sopravvissuti al naufragio. Il Labanof lavora tutt’ora per identificare le centinaia di dispersi di quel dramma, e vorrebbe fare del barcone un museo scientifico per i diritti umani a Milano, sempre che si riesca a spostarlo da Augusta, dove si trova attualmente, dopo essere stato ripescato a 400 metri di profondità. Cristina Cattaneo ci ha mostrato ciò che le giovanissime vittime portavano con sé quella notte: dei piccoli sacchettini con la terra del proprio Paese, dei foglietti con decine di numeri di telefono infilati tra le cuciture dei vestiti, i guanti della propria squadra del cuore. Tutto ciò che porteremmo anche noi, in un viaggio della speranza. 

Ma cosa ne è invece dei vivi? Dal 2010 il Labanof si occupa anche di visitare le vittime di violenza che necessitano di una «lettura del corpo», perché possa essere riconosciuto loro il diritto all’asilo politico e lo status di profugo. Attraverso lo studio delle cicatrici, è possibile infatti dimostrare se una persona è stata vittima di tortura nel proprio Paese di origine, oppure, come ormai capita sempre più spesso, nei campi di detenzione libici. Questo lavoro è necessario anche per tutelare gli orfani e i minori stranieri non accompagnati che arrivano nel nostro Paese e di cui non conosciamo neanche l’età esatta. Ora, a prescindere dal fatto che credo sia terribile dover verificare se ciò che viene raccontato dai profughi a proposito delle violenze inflitte sia vero o meno, (e ci hanno confermato che nel 99% dei casi lo è sempre), torniamo al punto di partenza. Ossia al fatto che alla fine il minimo comun denominatore tra i vivi e i morti è proprio il corpo umano. Quest’ultimo ci dice molto sull’umanità e oggi ci chiede di svegliare le coscienze, perché non possiamo permettere che tutto ciò accada senza che nessuno dall’alto muova un dito. 

Alla domanda se si riesca mai a staccare da questo lavoro, la professoressa risponde di no. Non ce ne si può mai allontanare veramente. Ce lo si porta dietro tutti i giorni, e man mano lo si metabolizza. Certo, è logorante, ma ti fa vedere anche ciò che di bello rimane. L’affetto dei cari, la determinazione a ritrovare il proprio morto, la solidarietà degli esseri umani per riportare a casa una salma. Questo mestiere ti apre le porte dell’umanità. Perché dopotutto, la morte ci parla della vita. 

Grazie Cristina per questa lezione d’amore. 

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