Di Michele Fagnani
Mi chiamo Michele, sono nato alla 25a settimana di gestazione il 1° dicembre 2001. La mamma, che fino a quel momento era stata bene, una notte cominciò a stare male e così cominciò una corsa da un ospedale all’altro per capire che cosa stava succedendo.
Alla fine le diagnosticarono la sindrome Hellp, una patologia molto rara ma anche molto pericolosa perché colpisce il fegato e abbassa globuli rossi e piastrine.
I medici dissero che avrebbero dovuto intervenire subito per salvare la mamma, io ero troppo piccolo, non avevo molte chances di sopravvivere e comunque non potevo essere la priorità in quel momento. Nel 2000, al di sotto delle 24 settimane, non si pensava neanche di salvare il bambino ed io ero proprio sul quel limite.
Comunque sia, alle 2.45 vengo scaraventato nel mondo con i miei 645 grammi! Ma io ero testardo e non volevo mollare senza vedere la mia mamma e il mio papà. E ci riuscii, nonostante la partenza in salita.
La mamma arrivò su una sedia a rotelle, accompagnata dal papà, dopo tre giorni di terapia intensiva… anche lei ce l’aveva fatta!
Ma questo è solo l’inizio della storia.
I medici erano molto scettici riguardo alle mie condizioni: i polmoni non erano maturi, le occlusioni intestinali molto probabili, le infezioni anche, l‘ossigeno mi permetteva di respirare, ma avrebbe anche potuto danneggiare le mie retine.
Invece quello che poi mi ha fregato, è stata un’emorragia cerebrale, rivelata dall’ecografia. I medici hanno allertato subito i miei genitori, anche se non potevano sapere quali effetti avrebbe comportato questa nuova complicazione.
La mamma è riuscita a darmi un po’ del suo latte che si tirava con la macchinetta, ma per lo più venivo alimentato con il sondino gastrico perché i prematuri non hanno la forza per succhiare.
Il primo mese è stato un continuo saliscendi, un giorno bene, il giorno dopo male, come su una giostra. Con questa respirazione che andava e veniva, con il suono del monitor che ormai era diventato il nostro compagno di viaggio.
Poi, dopo Natale, la mia dottoressa annuncia la svolta: «Si stacca tutto, ora deve respirare da solo». E io che faccio? Obbedisco!
Forse non ne potevo più di quella scatola trasparente che mi imprigionava, volevo un contatto diverso da quello delle infermiere con i loro aghi. Potei così iniziare la marsupioterapia in braccio alla mamma, come dovrebbe succedere da subito per ogni bambino. Ma noi prematuri questo contatto ce lo dobbiamo guadagnare duramente!
E fu così che cominciai a prendere peso e raggiunti i due chili e duecento grammi, ho potuto lasciare l’ospedale e andare a casa. Novantuno Giorni Dopo.
La mia infanzia è stata (quasi) come quella di qualsiasi altro bambino, la differenza più evidente era che non potevo camminare e correre, quindi ero sempre a tappeto o su qualche marchingegno, passeggino, deambulatore, poltroncina, che poi sono diventati seggioloni, panchetti e sedie varie.
Il problema di stare sempre sopra questi aggeggi è che a volte si cade e si pesta il muso, mi è successo un po’ di volte e vi assicuro che non è piacevole.
Ho iniziato a frequentare la scuola materna e come tanti all’inizio piangevo quando la mamma se ne andava.
Una molla che mi ha sempre spinto è stata la curiosità, così mi piaceva ascoltare le storie e vedere le immagini, tant’è che pian piano, quasi senza accorgermi, ho imparato a leggere da solo prima ancora di andare a scuola.
Ho avuto le mie passioni, prima le automobiline, poi il calcio, e poi la Formula Uno.
La costante che non mi mai abbandonato è la fisioterapia, da sempre mi sottopongo a più sedute a settimana, ma devo dire che non mi pesa, non mi è mai pesato perché, da una parte mi aiuta a star bene, e dall’altra è l’occasione di incontrare persone che ormai sono di famiglia, amici con cui condividere le esperienze di vita, prima che professionisti.
Ci sono stati momenti più complicati, come alcuni interventi a cui mi sono sottoposto, che da una parte ho affrontato serenamente con il supporto della mia famiglia, ma che purtroppo alla lunga mi hanno dato delle delusioni perché a fronte delle cicatrici sulle gambe, queste si muovevano comunque come prima.
Per un certo periodo abbiamo sperimentato anche la fisioterapia in camera iperbarica, nella speranza di risvegliare qualcuna delle mie cellule cerebrali dormienti, ma niente, non ne volevano sapere di riattivarsi. Quel periodo è coinciso purtroppo anche con un brutto momento, l’improvvisa perdita del nonno, che era (ed è tuttora) un punto di riferimento, perché era una persona dal carattere forte, deciso, ma allo stesso tempo dolce e paziente. Ho passato con lui dei momenti indimenticabili, come quando dal terrazzo della sua casa al mare guardavamo le macchine che passavano o giocavamo a carte. Mi manca tanto, ma ha un posto fisso nel mio cuore.
Ho subìto, fortunatamente solo in pochissime occasioni, la cattiveria e l’insensibilità degli altri.
Una della battaglie che combatto costantemente, riassumendo il concetto in un’unica parola, è quella con l’ansia. Forse non è corretto definirla un nemico perché la lotta ti fa andare avanti e ti spinge ad andare oltre i tuoi limiti cercando di conquistare, passo dopo passo, nuovi traguardi.
Il problema è che quando vince lei, la mia autostima, già non particolarmente elevata, precipita a livelli bassissimi e diventa poi difficile tornare ad essere sereni. Con il tempo devo dire che ho imparato a tenerla a livelli più accettabili. Un’esperienza che mi aiutato molto è stata la partecipazione al Dynamo Camp. Intanto si sta in un posto bellissimo e già questo aiuta. Ma soprattutto si conoscono altri ragazzi, ognuno con la sua croce, anche se in quella settimana tutti si dimenticano di portarla, con tante risate, tanti sorrisi, tante avventure che mai avremmo pensato di poter vivere.
Lasci, magari per la prima volta, la famiglia, ma ne incontri un’altra “allargata”, capace di darti tante emozioni. E il bello è che non finisce lì, ti porti tutto a casa e affronti l’esistenza con nuovi strumenti e con un nuovo spirito. Quello di sorridere alla vita nonostante tutto.
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