Disuguaglianza in una protesi
Di Alessandro Mangogna
«Mezza ricchezza globale nelle mani dell’1% del mondo», questo è lo slogan che da qualche anno a questa parte riecheggia nelle nostre orecchie facendoci rabbrividire. Se è vero che il progresso scientifico e tecnologico del XX secolo ha determinato un notevole aumento dell’aspettativa di vita, allo stesso tempo non sembra averne migliorato la qualità: almeno non per tutti. La disuguaglianza è madre delle ingiustizie. Ingiustizie tanto enormi quanto lontane dal nostro quotidiano, che ci fanno sentire privilegiati e quasi colpevoli, come la fame nel mondo o l’impossibilità di accedere ai servizi sanitari e di istruzione basilari; ingiustizie più vicine, quali i super-stipendi dei parlamentari e dei top manager che ci fanno digrignare i denti; poi ci sono quelle ingiustizie di cui non tutti sanno l’esistenza, ma che per quei pochi che ci si imbattono rappresentano il discrimine per una vita «normale».
Serie A e Serie B
Con questo pezzo vorrei cercare di dar voce a un’ingiustizia di quest’ultima categoria che interessa una cerchia fortunatamente ristretta di persone, ovvero i pazienti amputati. Ho iniziato ad avvicinarmi a questo mondo dallo scorso settembre dopo aver subito un’amputazione transfemorale (sopra il ginocchio) della gamba destra. Una volta uscito dall’ospedale mi è capitato spesso di sentirmi dire: «Vedrai che con le protesi di adesso non avrai problemi, ti permettono davvero di riprendere ogni cosa!». Vero, ma forse non tutti sanno che quei gioielli tecnologici che ti permettono di correre o di salire e scendere le scale con naturalezza, frutto dell’ingegno umano più sopraffino, hanno un prezzo ed è anche considerevole, dato che per avere il top di gamma si può arrivare a spendere anche sui 90mila euro. Ma dove sta l’ingiustizia? Si tratta anche qui dell’eterna disuguaglianza tra ricchi e poveri? Non esattamente. Una volta entrato a far parte di questa realtà parallela, mi è stato spiegato che esistono amputati di serie A e altri di serie B. Qualcuno potrebbe pensare che la disuguaglianza in questione possa dipendere dalla gravità dell’amputazione, ma non è neanche questo: la vera caratteristica che distingue le due categorie di amputati risiede nel contesto in cui si sono create le circostanze che hanno portato i medici ad optare per un intervento di demolizione di un arto. In altre parole: chi ha subito un incidente sul lavoro è di serie A, mentre tutti gli altri appartengono alla categoria inferiore.
Mentre la serie A è capitanata e supportata dall’ente pubblico Inail (Istituto nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro), il quale rimborsa ogni spesa relativa al percorso riabilitativo, compreso il costo della protesi e vitto e alloggio nel centro protesico; alla serie B va meno bene perché si ritrova nelle mani dell’Asl (Azienda Sanitaria Locale), decisamente meno propensa a sostenere economicamente i membri della sua squadra.
La sopracitata distinzione tra pazienti porta a situazioni paradossali: signori anziani con gambe bioniche di ultima generazione che deambulano su costose carrozzine elettroniche e dall’altro lato giovani con la potenzialità di praticare sport agonistico, con semplici protesi meccaniche perché magari non riescono a sostenere le spese di un ginocchio elettronico.
Una protesi non è un gioco
Indossare una protesi non è un gioco: serve impegno, determinazione, tecnica e soprattutto entusiasmo e voglia di tornare a fare le attività che erano state messe in standby. Disposizioni d’animo che spesso mancano a una persona anziana ed è per questa ragione che spesso i tecnici ortopedici consigliano loro protesi più semplici da utilizzare, perché la soluzione migliore per ogni paziente non coincide necessariamente con l’acquisto di una protesi top di gamma: è qualcosa di estremamente soggettivo. Nonostante ciò, in molti della squadra di serie A fanno la voce grossa per ottenere i gadget più costosi solo perché ne hanno diritto, per poi finire in carrozzina a causa della loro incapacità nel gestire una protesi estremamente performante. Dunque, questa enorme libertà di scelta per i pazienti Inail, in alcuni casi, viene anche a cozzare con le disposizioni mediche.
Tralasciando questi paradossi, ciò che mi rattrista enormemente è la mancanza di un ente, non necessariamente l’Asl, che tuteli allo stesso modo anche i pazienti di serie B, che a volte hanno alle spalle storie di malattia, grande sofferenza e dolore. Combattenti che non sempre hanno la disponibilità economica per permettersi il meglio, ma spesso hanno quel fuoco, quella determinazione che li fa svegliare presto per andare in palestra a far riabilitazione nonostante il giorno prima abbiano fatto un ciclo di chemioterapia, nonostante la stanchezza dovuta all’anemia e nonostante un futuro incerto.