Intervista a Mauro Magatti

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«Il Potere di chi non ha Potere»

Di Alice Nebbia

«La libertà è relazione», così afferma il noto sociologo ed economista Mauro Magatti, docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore ed autore di numerose pubblicazioni. Un pensiero tanto profondo quanto attuale, che rimanda a due concetti strettamente legati tra loro e connessi al tema della generatività sociale, su cui il professor Magatti muove la sua analisi. Un’affermazione, quella della libertà intesa come relazione, che risuona quasi come un’eco di quanto avvenuto a Milano, quando, venerdì 15 marzo, 100mila ragazzi sono scesi in piazza a manifestare contro i cambiamenti climatici che si stanno prepotentemente susseguendo. Nessuno slogan violento, solo la voglia di alzare le mani per un pianeta pulito. 

L’attivista svedese Greta Thunberg e la studentessa keniana Charlotte Wanja, sono giovani donne che mettendosi a capo di una marcia scuotono le coscienze sull’urgenza di agire per il bene nostro e della Terra.

  Professor Magatti, cosa sta succedendo a questi giovani?

«In questo momento, come è avvenuto in altri momenti della storia, il cambiamento è arrivato dai giovani, da chi è più periferico rispetto ai sistemi di potere e d’interessi e per questo paga i costi maggiori rispetto agli effetti negativi di un certo ordine sociale. Un insieme che io definirei di “potere dei senza potere”. Infatti, moltissime delle persone che hanno manifestato venerdì 15 marzo sono giovanissimi, e nell’insieme che ho definito rappresentano la parte più rilevante. Altrettanto simbolico il fatto che a promuovere l’iniziativa siano state due donne, dimostrazione della maggior sensibilità femminile. Per quanto non sappiamo ancora se questa marcia possa essere incisiva e trasformarsi in qualcosa di significativo, da un punto di vista simbolico è evidente che questa aggregazione di ragazzi è una risposta concreta al modello di sviluppo costruito da noi adulti».

Quali possono essere i possibili scenari futuri?

«Faccio un paragone storico: quando nel ‘68 sono scesi in piazza gli studenti da tutto il mondo, questi erano portatori di un’istanza che riguardava i concetti di libertà, soggettività e autorealizzazione. Il tutto era in realtà la punta di un iceberg di molteplici fattori che si sono mossi insieme: la società dei consumi, la questione delle proteste operaie e, successivamente, il neoliberismo. La marcia del 15 marzo è stata un segnale che siamo di fronte a un problema che ci viene posto. Ci sarà poi il concorso di tante soggettività e affluenti che determinerà quello che accadrà in futuro».

Diseguaglianza e questione ambientale sono stati due grandi temi per il nostro giornale. Qual è secondo Lei il nodo sociale?

«Diciamo che tra i due concetti (diseguaglianza e ambiente) esiste una tensione, spesso sociale. Pensiamo alla Francia, alla protesta dei gilet gialli partita anche a seguito delle decisioni prese dal governo francese sull’impatto ambientale del diesel e, in Italia, la questione di Taranto, con il dibattito tra ambientalisti, che volevano preservare l’ambiente e i lavoratori che cercavano dal canto loro di difendere il posto di lavoro. Il nodo sta nel fatto che il tema della diseguaglianza spesso non va di pari passo e in comune accordo con quello della questione ambientale». 

Come si può legare il tema del lavoro-salute alla complessità del mondo moderno, dove il sistema società sembra trascurare sempre qualcosa e qualcuno?

«Credo che per fare questo si debba partire dal concetto di sostenibilità (sia essa ambientale, sociale o umana) per poi avviarsi verso la realizzazione di un modello sostenibile. Sostenibilità significa riconoscere che la nostra capacità di produzione economica e d’innovazione tecnica sono in rapporto a ciò che ci sta intorno, all’ambiente, ai gruppi sociali, ai rapporti generazionali. Non è pensabile un modello sostenibile che scambia con il consumerismo. Pertanto, avvalersi di un modello di sviluppo sostenibile adeguato alle persone che vivono dentro a un sistema, e vedere un’economia relazionata ai fattori precedentemente citati, porterebbe, se non a risolvere il problema, perlomeno a impostare più correttamente un modello d’azione».

Come si può visualizzare nella nostra società il concetto di «bene di comunità»? 

«Nella nostra quotidianità, ci sono beni di varia natura, relazionali, che non sono strettamente pubblici e non sono privati, ad esempio la qualità dell’aria che respiriamo in una città e la conseguente qualità della vita, sono concetti di beni condivisibili e di comunità. Ad essi si accede non semplicemente in forma privata, ma se i cittadini si comportano in una certa maniera, se le istituzioni investono nei trasporti pubblici e così via. La salute, il bene sanità, ad esempio, nel tempo è stato pensato prima quasi esclusivamente come statale, poi in parte anche privato, però ci sono dimensioni della salute che possono essere acquisite solo se ci sono cambiamenti culturali nei modi di fare, che coinvolgono e riguardano ancora una volta tutti. L’obiettivo di produrre beni che siano declinabili per il bene comune e collettivo è una questione importante per le società avanzate come le nostre».

Quali possono essere i legami sociali del futuro?

«Per rispondere a questa domanda, riprendo un tema che mi sta molto a cuore: la libertà. Siamo soliti pensare al concetto di libertà come separato da quello di relazione. Come sociologo, ritengo che la libertà invece, è relazione, è la capacità di slegare e contemporaneamente rilegare insieme in un processo costante. Al concetto di libertà si collega anche quello di responsabilità.  In quanto libero, sei continuamente nella responsabilità di poter decidere che cosa sleghi e che cosa rileghi. Non esiste una libertà che si slega e basta. Se noi pensiamo ad essa solo come slegamento, implode e si rovescia nel suo contrario. Noi abbiamo bisogno per i legami sociali del futuro di una libertà che si faccia promotrice e carico di nuove relazioni e dia vita a forme di relazioni inedite, che siano capaci di essere rispettose della libertà di chi ne fa parte. Questa è una sfida molto impegnativa, da un punto di vista culturale, e per nulla scontata. Ma la libertà è anche saper attraversare un vuoto, vincere la paura. L’idea che si possa fare qualcosa per creare nuove forme di agire è un’impresa enorme alla base del concetto di generatività sociale». 

Quali sono le radici della generativià sociale?

«La generatività sociale ha un padre, Erik Erikson, psicologo americano e studioso delle fasi evolutive e una madre, che è “Amare”. Erikson afferma che nello sviluppo dell’individuo, nel passaggio dalla fase adolescenziale a quella adulta, si affronta una crisi perché l’adolescenza si trova di fronte alla realtà e deve decidere cosa fare: permanere nella stagnazione o in alternativa, agire. Dall’idea di dover fare qualcosa, scaturisce la generatività. Amare invece, dice che noi siamo fatti per incominciare. L’atto più autentico di un uomo libero e una donna libera è mettere al mondo qualcosa che prima non c’era (non solo biologicamente). Questa è l’espressione più grande, evidente ed entusiasmante della tua unicità: un’idea di libertà che si gioca in ciò su cui si spende».

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