L’anoressia è un muto grido di dolore che dilania l’anima e il corpo di chi ne soffre.
Nella nostra vita di coppia e familiare questa malattia ha segnato un solco profondo, una netta cesura tra la vita del «prima» e la vita del «dopo» la sua insorgenza.
Quel solco si è fatto muro fra noi e nostro figlio.
C’è voluto del tempo – moltissimo, forse troppo tempo – per capire che quel muro invincibile, che cercavamo disperatamente di abbattere a mani nude, era in realtà per lui un baluardo difensivo vitale, lo scudo levato a tutela di sé, l’ultima frontiera a ridosso del suo mondo interiore popolato di demoni innominati.
Ecco, proprio questo non si riesce o non si vuole comprendere all’inizio.
La restrizione alimentare, le mille ossessioni e manie verso il cibo, il progressivo ritiro sociale, comportamenti bizzarri e razionalmente inspiegabili altro non sono se non le dinamiche perverse della malattia.
Per un genitore, accettare fino in fondo la malattia di un figlio, soprattutto se si tratta di una malattia psichiatrica, non è facile.
Anche per questo le nostre prime strategie si riducevano a reazioni scomposte, dettate da violenti stati emotivi di impotenza, di paura, di rabbia, di dolore, compagni di viaggio che bisogna abbandonare lunga la via al più presto, se si vuole davvero diventare parte – in misura più o meno maggiore – di un progetto di rinascita.
Combattevamo con forza cieca il sintomo, non la patologia.
Ogni pasto è divenuto così il campo di battaglia dove si affrontavano ad armi impari – la malattia è terribilmente più forte – la feroce determinazione di nostro figlio nel restringere la quantità e la varietà di cibo, da un lato, e la nostra cieca pretesa di alimentarlo a tutti costi, dall’altro.
Diffidenza, incomprensione, incomunicabilità sono stati i frutti malati di questo scontro surreale.
Non sapere più come nutrire la propria creatura è un’esperienza disperante, perché colpisce nel profondo le istanze ancestrali di cura radicate in ogni genitore.
Impedisce di compiere l’atto primordiale d’amore: assicurare il nutrimento.
Gli interventi di esperti – psicologi e nutrizionisti – non riuscivano ad essere incisivi, aumentando così a dismisura il senso di impotenza.
Ciò che mancava – ma lo avremmo scoperto più tardi – era il nostro coinvolgimento nella terapia.
A margine di questo percorso doloroso si sono generate e sviluppate tante altre sofferenze.
Quelle degli altri figli, in primo luogo, che avevano un disperato bisogno di comprendere ciò che stava accadendo e da noi riuscivano ad ottenere solo una tutela fondata essenzialmente sul silenzio e il nascondimento.
Ma anche la nostra, come coppia, derivante anche dall’isolamento in cui man mano ci eravamo rinchiusi a causa delle enormi difficoltà di comunicare all’esterno tutto il nostro malessere.
Per chi non vive e non conosce il problema, è estremamente difficile essere di supporto alle famiglie malate e spesso si finisce per essere più di intralcio che di aiuto.
La malattia è diabolica, nel senso etimologico del termine: per sua natura separa, divide.
Aliena l’ammalato da se stesso, scardina i rapporti.
Il nostro vagone carico di sofferenze si è così trascinato stanco per anni su binari che non sembravano portare ad alcuna destinazione, finché, per quei casi della vita che sono tutt’altro che infrequenti, ha imboccato un binario morto.
Le condizioni fisiche di nostro figlio erano peggiorate, la sua malattia pretendeva da lui sempre di più, il peso era ai minimi termini.
Finalmente la decisione di andare in ospedale, a Niguarda.
Alla prima visita si sono rivelati i danni fisici che la malattia aveva generato.
Ventisei battiti del cuore al minuto, il ricovero immediato.
L’inserimento nella struttura ospedaliera da esterno per alcuni mesi e poi un altro aggravamento, fino alla decisione di un ricovero in day hospital.
Non dimenticheremo mai l’impatto con il reparto.
Quei corpi svuotati che si aggiravano per i corridoi, spesso in carrozzina e con il sondino.
La spessa coltre di sofferenza che ricopriva ogni andito del reparto, dalla sala di aspetto alle stanze in cui i ragazzi trascorrono le giornate.
Sguardi di genitori smarriti, pianti.
I mesi in day hospital non sono stati semplici.
Subito siamo stati inseriti nel gruppo di ascolto dei genitori guidato da una psicologa e qui è cominciata la nostra formazione per divenire, a tutti gli effetti, protagonisti nella cura di nostro figlio.
Dal confronto di esperienze con gli altri genitori abbiamo imparato a conoscere in profondità le dinamiche della malattia.
Abbiamo conosciuto genitori e persone meravigliose, combattenti mai domi, sostenuti da un’incrollabile speranza, anche nei momenti più bui.
Abbiamo pianto insieme, ma anche imparato a ridere insieme.
Per la prima volta ci siamo sentiti compresi e abbiamo avuto il coraggio di aprirci alle nostre difficoltà.
Quello che, al primo impatto, sembra essere un luogo di dolore puro, era, in realtà, la fucina in cui si tempravano armi acuminate per essere scudieri al fianco dei nostri figli.
Sono passati due anni.
La nostra vita del «prima» della malattia è dimenticata, forse non è mai esistita.
In quest’altra vita sono risorte persone e relazioni nuove.
Per la prima volta sappiamo cosa rispondere alla solita, banale domanda, che tanto ci metteva in difficoltà: «Come sta vostro figlio?»,
«È finalmente in cammino», rispondiamo.
E noi con lui.