Di Arianna Morelli
Sono stati 26mila i ragazzi accolti fino ad oggi, 1315 quelli presenti all’interno della comunità, ora come ora. Tante attività: sportive, artistiche, progetti di prevenzione volti a circa 50.000 studenti, consapevolezza del bisogno di aiuto.
Tutto questo è San Patrignano, comunità di recupero che diviene casa e rifugio di tanti ragazzi, uomini, madri, zii, sorelle che hanno smarrito la strada e cercano di ritrovare il proprio percorso, il proprio cammino di vita caratterizzato da autostima, dignità, amore, responsabilità ed entusiasmo. San Patrignano – per gli amici e le persone che se ne affezionano Sanpa – è una comunità viva che offre, anche grazie al sostegno e al supporto di chi ha già vissuto esperienze simili, una possibilità di rivincita, di ricostruzione di sé, di plasmare la matassa che si ha fra le mani, che osserva l’ambiente circostante domandandosi quale sarà il suo futuro. Sanpa svolge tutto ciò offrendo la possibilità di impegnarsi in numerosi progetti volti al mantenimento della terra che si abita, alla preparazione del pranzo per tutti gli ospiti del centro, all’alimentazione per gli animali che animano i campi e i giardini, alla sartoria.

Questa è la mia idea riguardo a Sanpa, da ormai un anno. Prima di sviluppare tale visione nutrivo e alimentavo in proposito pensieri fumosi e distorti. Lo vedevo come «il carcere», quel luogo infido dove la disperazione regna sovrana. Fino a che non ho accettato il fatto che mio padre fosse stato ospite e non avesse superato la lotta contro il mondo dell’eroina, non riuscivo a vedere nelle attività offerte la possibilità di ricostruirsi e di farcela: vedevo il mostro maligno, paragonabile a un cancro, contro cui chemioterapici ed operazioni non stimolano il retrocedere delle cellule infettate. Da quando ho visitato questo luogo, invece, ho scoperto e rivalutato questo immenso mondo e grazie a un ragazzo ospite della comunità che mi ha guidato nella visita, ho scoperto e rivalutato aspetti che avevo tralasciato e dato per scontato. Ho in tal modo ricostruito un pezzo della vita di mio padre. Quando una realtà riesce ad imprimere il senso del suo esistere e a condizionare le scelte di ciascuno, a far riflettere su quelle prese in passato e a far immaginare quelle future, lì si comprende di essere su un baratro e di aver bisogno di aiuto.
È il primo passo.

Riconoscere le proprie difficoltà, spogliarsi dinanzi a loro evitando di lasciare che ci violentino, ma tramite l’aiuto che si riceve, cercare di ricostruirsi, comunicando quanto più possibile le proprie angosce e i propri desideri. Le comunità sono, appunto, atte, oltre che al recupero della persona in senso fisico, anche alla ricostruzione e rielaborazione dei propri bisogni e della sfera emotiva. Corpo e mente sono un’incredibile macchina da guerra e quando non riescono a collaborare ed entra in gioco il cosiddetto «cortocircuito», c’è chi riesce a mantenere l’equilibrio e chi inciampa facendosi risucchiare in vortici come la tossicodipendenza, un mondo parallelo che amplifica o azzera emozioni e sentimenti, che rende più leggera la vita quotidiana, mentre ci si carica di una tensione che non si riesce a sfogare. Un mondo apparentemente al proprio servizio. Non avrei mai immaginato di riuscire a scrivere questo articolo su di loro: fino a poco tempo fa erano i miei migliori nemici.
La dipendenza e San Patrignano. Lei e lui. Quei due. I colpevoli della sua assenza. Coloro che lo avevano allontanato da me. Mi avevano rubato la figura paterna. Sarò sempre anche la bambina che odia le comunità e non vede in esse la possibilità di recupero, di chi ce l’ha fatta, ma ora finalmente posso dire di aver sviluppato anche l’altra mentalità. San Patrignano è soprattutto una costruzione solida che si distingue in me e mi ha insegnato il valore del perdono.