Di Emanuela Niada
Recentemente abbiamo avuto l’opportunità di incontrare il dottor Ferruccio De Bortoli, ex direttore del Corriere della Serae poi del Sole 24 ore, ora Presidente di Vidas e la direttrice sociosanitaria di Vidas, la dottoressa Giada Lonati, ai quali abbiamo posto alcune domande.
Come si confrontano le persone con il fine vita?
D.B. «La nostra società esorcizza la morte, la rimuove. Rifiuta il confronto con la fine naturale della vita. Io stesso non avevo maturato questa sensibilità negli anni in cui ero impegnato nelle necessità quotidiane. Ho scoperto che la malattia è comunicazione, desiderio di stare con gli altri in modo diverso. Si affronta con uno spirito vitale di gioia, ma anche di raccoglimento. Non è solo tempo, ma è la profondità del tempo. I momenti risultano infiniti se vissuti bene, con i propri cari, nella scoperta, nei ricordi, nella condivisione della parte finale dell’esistenza. La fondatrice, Giovanna Cavazzoni, ha insegnato l’assistenza umana, creando calore nei momenti di grande sofferenza, cercando di far affrancare dal dolore i malati terminali, sostenendoli per ricostituire la famigliarità degli affetti e farli ancora sognare, in una corresponsione positiva tra chi soffre e chi sta accanto. Gli esempi di Vidas e di B.LIVE possono aiutare il mondo intorno a noi rancoroso, insensibile, ripiegato su se stesso, perché il bene è contagioso e può arricchire con esempi pratici di solidarietà».
Come mai è arrivato a Vidas?
D.B. «Avevo conosciuto Giovanna Cavazzoni ed ero già consigliere da una decina d’anni, anche se non molto presente per i miei impegni di giornalista. È stata la mia “stalker” della bontà, che ringrazio per questa straordinaria esperienza. È uno degli incontri fortunati che si fanno nella vita, le piccole svolte, quando qualcuno ti fa fermare a vedere luoghi e situazioni con occhi diversi, come scrive Proust».

E lei, dottoressa Lonati, come è arrivata a Vidas?
G.L. «Sono un medico palliativista, che interviene quando lo spazio della guarigione è finito e si inizia a prendersi cura della persona. All’inizio facevo l’anatomopatologa, poi l’oncologa. Non mi piacque il modo in cui i medici comunicavano informazioni importantissime ai pazienti. Intuii quanto intervenisse il fattore umano. A 25 anni mi proposero di somministrare le cure palliative. Una paziente mi spiegò cosa volesse dire per lei essere malata, essere curata e decisi che mi sarei dedicata ai pazienti terminali per avere cura di loro dal lato umano, senza pretesa di guarirli. Sono stata malata in modo grave in gravidanza e ho inteso la malattia come possibilità. È stato un dono che mi ha insegnato molto su come il paziente guarda il medico. Il dottore che mi diede la notizia della massa ovarica stava masticando la cicca. Mentre la dottoressa che mi seguì non mi promise la guarigione, ma mi assicurò che sarebbe rimasta accanto a me nel percorso terapeutico. “Palium” deriva dal nome del mantello che S. Martino taglia a metà per darlo al povero. Accoglie il dolore, ma tiene per sé una parte del mantello per ripararsi. Dopo il suo gesto, avviene un miracolo: il mantello torna intero. Spiego ai miei figli che il bene è un’energia che va messa in circolo, è importante anche imparare a ricevere. Mi piace considerarmi una testimone. Tratto persone considerate inguaribili con un arco temporale più breve che nella medicina tradizionale. La malattia cronica necessita di prendere decisioni da parte dei medici, da condividere coi malati per definire le cure. La legge 219 del biotestamento del 2017 regola le seguenti aree: – consenso informato – terapia del dolore – sezione di minori e incapaci – disposizioni anticipate di trattamento – dignità nella fase finale della vita – pianificazione condivisa delle cure. Per poter decidere bisogna essere informati sul significato della malattia, è un diritto sancito dalla Costituzione. I principi di bioetica definiscono la beneficialità e la maleficialitàdelle cure, che a volte possono portare più svantaggi che altro. Si parla di giustizia distributiva, perché non esistono risorse infinite, quindi, per tener conto del costo sociale, i medici devono operare scelte consapevoli e devono proporre un trattamento appropriato, ma solo il paziente può decidere se la terapia per lui è accettabile. C’è comunque un’asimmetria professionale nella relazione, perché il dottore “ha in mano” la salute del paziente e detiene le competenze professionali per curarlo. La comunicazione di un responso importante deve essere progressiva, non rapida, tutta in una volta. Finora i medici non sono stati educati all’approccio umano e alla dimensione spirituale del paziente. Essere coscienti che la propria vita sta finendo consente di chiudere e definire situazioni».
Non sapevo che la mia fosse una malattia e non mi veniva spiegata.
G.L. «Questo fa parte della cattiva educazione dei medici, che non hanno empatia, perché nell’Università non viene insegnata. Va sviluppata con la pratica. In Vidas si insegna alle persone ad essere forti del loro diritto di essere informati sulla propria condizione. La Disposizione Anticipata di Trattamento (DAT) si fa in salute, con la pianificazione e fornisce la possibilità di raccontare di sé, oppure nella concretezza della malattia si modulano i trattamenti a seconda delle proprie volontà. Nel DAT si può nominare un fiduciario, testimone di ciò che è stato scritto, che si rende garante dell’applicazione delle disposizioni date. Può essere un figlio oppure il medico. Con i figli può diventare una bella occasione di parlare delle scelte significative che si intende fare, parlando della morte con un ruolo attivo».
Dopo l’esperienza in Vidas farebbe il giornalista in modo diverso?
D.B. «Forse farei scelte diverse. Valuterei le persone con maggior attenzione e rispetto della loro dignità e pudore. In un fatto di cronaca, nella fretta della quotidianità, le persone diventano oggetti. Ormai oggi la privacy non esiste più, le vite vengono monitorate nei desideri più reconditi. Non applicherei l’autocensura, ma userei cautela nei confronti delle persone pensando ai loro familiari, alle relazioni, alla loro reputazione. Quello che cambia è la percezione della centralità della persona. Pure un ergastolano è titolare di diritti».

La verità è stata uccisa?
D.B. «Nella nostra società è venuta meno l’importanza della verità. I dibattiti sono slegati dalla realtà anche scientifica. Le persone pensano di possedere la verità, mentre catturiamo solo una piccola parte di realtà che nel tempo, cambia. La prima impressione è ingannevole».
Come filtra le notizie nell’epoca delle fake news?
D.B. «Per me leggere il giornale è un rito. Molti ne fanno a meno. Il modo d’ informarsi è completo se accompagnato dal dubbio, dal confronto di punti di vista diversi, senza pregiudizi. Non siamo terminali passivi».
C’è una responsabilità di giornalisti ed editori se la gente legge meno?
D.B. «Sì, si sono preoccupati più del potere che del pubblico con un linguaggio non adatto ai tempi e diretto a un target ristretto. In 40 anni ci sono state innovazioni tecnologiche inimmaginabili. La rete non favorisce il confronto. I contenuti di molti giornali classici si discutono sulla rete e i temi trattati da giornalisti professionisti vengono ripresi su altri canali che un tempo non esistevano: social network, social media. Dove non c’è il giornalista, l’informazione libera è pericolosa. Addirittura esistono algoritmi che possono sostituire pezzi di informazione. Ma non si potrà mai sostituire un bravo scrittore che sa muovere sentimenti ed emozioni».
In 3/4 degli ospedali italiani (non in Lombardia) spesso non si ricevono cure appropriate. È sconfortante. Che cosa ne pensa?
G.L. «Purtroppo ho una posizione pessimista. E per quanto riguarda i DAT, in questo momento manca del tutto una rete che li gestisce. Bisogna portarsele appresso in caso di necessità. Inoltre il ruolo dei rianimatori è basilare da definire, perché spesso gli stati vegetativi sono creati dai medici, come nella vicenda di Eluana Englaro. Nel 2016 sono stati riconosciuti i livelli essenziali di assistenza (LEA), per regolamentare gli interventi di rianimazione».
Che senso ha la sua vita? Per cosa vorrebbe essere ricordata?
G.L. «Grazie al mio lavoro vivo con gratitudine. Ho imparato ad affidarmi, vedendo persone capaci di essere foglie sull’acqua, non in senso passivo. Forse sarò ricordata da marito e figli come una rompiscatole. Per ora vorrei essere felice, mantenendo una posizione interiore».
D.B. «Vorrei essere dimenticato bene, invece che ricordato male. Cerco di recuperare le mancanze del passato, equilibrando gli aspetti positivi e negativi».
Qual è il diritto di sapere, in caso di minori?
G.L. «Si informano i genitori. È possibile coinvolgere i ragazzi di ogni età».
Quali sono le battaglie che ricorda durante la sua carriera?
D.B. «In effetti ho sostenuto numerose battaglie contro poteri di destra e di sinistra, ho avuto querele, processi. Non ho mai lasciato soli i colleghi, il direttore è responsabile e paga anche per errori che non commette, ma per omessa vigilanza».
Cosa pensa dell’accanimento terapeutico?
G.L. «Il modello di medicina teso a “salvare la vita a tutti i costi”, ormai si è trasformato da “salvare vitam” a “sanare dolorem”. La posizione della Chiesa cattolica è cambiata, rinforzata dalla posizione del Papa. Più che occuparsi della sacralità della vita, si pensa alla sua qualità, cercando di evitare la sofferenza. Nella sedazione e nell’eutanasia vengono utilizzati farmaci diversi. L’eutanasia interrompe la vita. La sedazione palliativa non va contro il giuramento di Ippocrate».
Dottoressa Lonati, com’è gestire il carico emotivo?
G.L. «Per noi il tasso di “burn out” è più basso, perché riceviamo tanta gratitudine. Lavoriamo sempre in equipe tra medici e infermieri e suddividiamo sia il carico che la gratitudine».
Dottor De Bortoli, che cosa direbbe a un giovane che vuol fare il giornalista?
D.B. «Provarci sempre, non arrendersi mai».