Una malattia che diventa etichetta | Un compleanno parlando del Sarcoma
Di Matilde Bianchi
In un mondo ideale non dovrei trovare uno pseudonimo per scrivere questa storia. Non è così, invece, ho paura che tutti possano saperlo. Entro in atrio all’università e ho la sensazione di avere gli occhi dei miei colleghi addosso. Con fatica faccio qualche passo fino in aula ristoro, lì una mia compagna mi ferma e io trasalisco al suo: «come va?». La verità è che non so più come va. È incredibile come una domanda tanto banale possa scatenare una tempesta nel mio oceano di incertezze. Le rispondo un «bene» stentato, mentre mi chiedo se da fuori si percepisca il mio totale disorientamento.
Ho paura di parlare con i miei compagni adesso, ho paura che tutti sappiano. So che le voci corrono, che non mi sono presentata agli ultimi esami, che da qualche tempo non mi faccio vedere in giro. Cerco di pensare razionalmente. Tutti non si sono fatti vedere in giro, perché dovrebbero pensare proprio a me?
La verità è che vorrei togliermi questa maschera e uscire allo scoperto. Credo che se tutti potessimo liberamente parlare dei nostri problemi senza la paura di dover essere giudicati, molte cose risulterebbero decisamente più gestibili.
Questa cortina di mistero che ruota attorno a certe tematiche, non fa che accrescere l’ignoranza e la mancanza di conoscenza delle persone, alimentando la paura.
Ho 23 anni e un mese fa mi è stato diagnosticato il disturbo bipolare. Questo non fa di me la matta della porta accanto, non fa di me una persona lunatica, non cambia la persona che sono.
Vorrei che questo messaggio passasse forte e chiaro. Vorrei non dovermi nascondere dietro scuse improbabili per giustificare il fatto di essermi dovuta curare, perché stavo male. Mi hanno dovuta ricoverare, non perché io abbia fallito, ma affinché potessi stare meglio.
Non vorrei che la mia malattia diventasse la mia etichetta e magari spingesse le persone a smettere di fidarsi di me, o a credere che io sia diventata una persona inaffidabile.
Vorrei che anche nella mia futura professione non si guardasse alla patologia mentale come a qualcosa di totalmente separato dalle altre forme di malattia, e si trovasse invece, un modo per favorire il dialogo e aiutare le moltissime persone che soffrono.
Le malattie psichiatriche sono malattie del cervello, come il diabete lo è per il pancreas: esistono farmaci che possono curarle adeguatamente e che hanno una loro base scientifica, non sono invenzioni stregonesche campate per aria, da osteggiare fino alla fine. Molti malati possono avere una vita sana e normale con i farmaci. Non dovrebbero esserci persone pronte a scoraggiare chi ne fa uso.
Sono una ragazza che, come molte altre persone, combatte una battaglia non visibile, contro una delle molteplici avversità della vita. Per via della mia malattia ho giorni totalmente bui e giorni pieni di voglia di fare e creatività. Vivere sulle montagne russe diventa estremamente faticoso e quindi serve un trattamento farmacologico ed educativo, che possa riportare queste oscillazioni in un ambito normale circoscritto.
I trattamenti richiedono tempo e pazienza affinché funzionino, ma ciò che serve, ancora prima, è che cambi la percezione comune verso le nostre patologie. Solo con la conoscenza e la condivisione si può abbattere lo stigma. Solo eliminandolo potrò entrare in università senza aver paura che qualcuno sappia.
Di Alessandro Mangogna
Quest’anno festeggio 27 anni, di cui 4 con la mia malattia e ho deciso di sfruttare questa meravigliosa opzione di Facebook per dare la possibilità a chi mi vuole bene di dare un piccolo contributo alla ricerca scientifica sulla cura dei sarcomi, ma anche per spendere due parole su questo particolare tumore che quasi nessuno conosce. Dunque… perché dovremmo donare?
Perché è una malattia estremamente rara nella popolazione adulta, ma rappresenta circa il 15% delle diagnosi di tumore infantile.
Perché la chirurgia, che la maggior parte delle volte è di natura ortopedica in quanto le prime manifestazioni della malattia sono a livello degli arti, è spesso molto invasiva e in alcuni casi addirittura demolitiva (amputazione).
Perché i chemioterapici utilizzati hanno tuttora pesanti effetti collaterali, talvolta non giustificati da una buona risposta, in quanto molti sottotipi di sarcoma sono poco chemiosensibili.
Perché è da più di 20 anni che non si sono visti sostanziali cambiamenti nella cura dei sarcomi.
Perché la percentuale di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi si aggira tra il 60-70%, ma la percentuale di recidiva è del 40% con le attuali cure.
Perché il sarcoma si diffonde principalmente per via ematica (sangue) e spesso la recidiva ha coinvolgimento polmonare, caso in cui la sopravvivenza a 5 anni scende drasticamente al di sotto del 20%.
Perché c’è spesso un ritardo sostanziale nella diagnosi causato in grande parte dalla disinformazione.
Perché sono ancora troppe le vittime dell’ignoranza e dell’incompetenza che arrivano ad una diagnosi ed in seguito ai centri di eccellenza nella cura dei sarcomi, solo dopo percorsi eccessivamente tortuosi che incidono negativamente sulle speranze di guarigione.
Perché sono più i compagni di disavventura conosciuti in ospedale che non ci sono più, rispetto a quelli che ce l’hanno fatta.
Perché non è possibile abituarsi a quel primo piano dell’Istituto Ortopedico Rizzoli, reparto di chemioterapia, dove il dolore delle mamme è talmente diffuso nell’aria da renderla densa e irrespirabile.
Perché il mondo in quel reparto è come se fosse capovolto e mi viene la pelle d’oca se penso agli occhi dei giovani pazienti, troppo spesso svuotati di quella luce e di quella vivacità caratteristiche della loro età.
Perché la verità è che, nonostante cerchi di mostrarmi forte e sorridente, la ferocia di questa malattia e le cattive notizie che da 3 anni mi accompagnano, hanno profondamente segnato me e le persone a me più vicine, motivo per cui ho una paura fottuta a pensare a cosa sarà di me anche solo tra un mese.
Perché anche un euro donato per me significa molto di più del classico «come stai?» a cui sinceramente spesso non so rispondere.