Dibattito su Barca Nostra, la nuova esposizione della Biennale di Venezia
Di Loredana Beatrici
A chi non è mai capitato di trovarsi a discutere sul significato della parola arte? O a sentenziare se un quadro o una scultura fosse o meno un’opera artistica? O ancora se un cantante potesse essere considerato un artista?
Quella sull’arte è una riflessione che da centinaia di anni scalda gli animi, ma che ancora oggi è orfana di una definizione universalmente riconosciuta, perché il concetto stesso di arte cambia in base alle epoche, alle geografie e ai contesti. Nell’antichità, per esempio,”ars” indicava l’abilità materiale, quindi l’arte era la mera attività tecnica con scopi utilitaristici. Nel Rinascimento ha assunto importanza non solo l’atto del fare, ma anche il risultato: l’oggetto artistico. Nel ‘700, con la Filosofia Estetica, l’opera d’arte non deve più essere solo utile, ma anche bella e capace di comunicare i sentimenti dell’artista. Assume importanza, quindi, il processo cerativo.

Oltre all’abilità tecnica, serve un’idea e un sentimento, perché possa essere arte. Nel 1818 il filosofo Cousin offre una nuova sfumatura: «l’arte non deve avere altri fini che se stessa, fuori da ogni preoccupazione utilitaristica». L’arte esce dalle botteghe e diventa espressione dell’artista. A fine ‘800 sembra delinearsi una definizione completa di arte, come unione di tre elementi: l’abilità tecnica, innata o acquisita; il processo creativo, ossia l’idea e i sentimenti che l’artista vuole comunicare; un fruitore,che ne riconosca il valore. L’arte deve essere l’insieme dei tre elementi, perché la tecnica senza processo creativo si chiama artigianato, il gesto artistico senza la tecnica è come il disegno inconsapelvole di un bambino, e non basta la sola reazione del pubblico, perché anche di fronte al tramonto ci si emoziona, ma non è arte.
Potremmo chiudere qui le nostre riflessioni, perché abbiamo trovato una soddisfacente definizione di arte! Purtroppo, però, questa labile descrizione ha retto solo fino a inizio ‘900, fino a quando, cioè, l’arte si è occupata di riprodurre più o meno fedelmente la realtà, comprensibile a tutti, secondo un senso comune del bello. Nel 1910, però, un certo Kandinsky presenta dei dipinti apparentemente senza senso, astratti, e un certo Picasso dipinge delle donne con seni al posto delle teste e bocche all’altezza delle braccia. Questi artisti, all’improvviso, decidono di lasciare alla neonata fotografia il compito di riprodurre il vero e iniziano a rappresentare a loro modo la realtà, con lo scopo non di piacere, ma di far riflettere. Nasce l’arte concettuale, in cui il bello non è più rappresentato nell’opera, ma nel processo creativo che porta ad essa. Il gesto artistico prende il posto dell’opera, in una progressiva riduzione della stessa fino ad arrivare a Marcel Duchamp, che acquista un urinatoio, lo capovolge e lo presenta a un’esposizione; o Andy Warhol, che rende una zuppa in scatola opera d’arte. L’artista rinuncia a riprodurre fedelmente la realtà (lo fanno la fotografia, la televisione), non vuole toccare le corde emotive (lo fa la pubblicità, il cui scopo è vendere), il nuovo obiettivo è esprimere un pensiero sulla realtà. Scomparendo il concetto di bello universaleil pubblico deve imparare ad apprezzare un nuova bellezza, nascosta nel messaggio dell’artista. Molto spesso, però, questi messaggi risultano incomprensibili, se non spiegati. E qui si crea l’equivoco: l’artista vuole dialogare con l’intelletto del fruitore, ma questi non comprende l’artista, per cui ne deduce che l’opera non sia bella, ergo non sia arte. Questo equivoco è stato più volte rappresentato in modo esilarante, ad esempio nel film Dove vai in vacanza?di Alberto Sordi, in cui i protagonisti, coppia di romani poco acculturati, vengono convinti dai figli laureandi a visitare la Biennale di Venezia del 1978. Sono molte le scene in cui due rimangono perplessi davanti a opere difficilmente interpretabili e quando si trovano ad osservare un muro (opera dello scultore Mauro Staccioli), Augusta chiede al marito Remo di cosa stia parlando la guida. E lui:«E che dice? Spiega, no? Spiega ’e cose che noi nun potèmo capi’».Sono caduti i criteri per definire se un oggetto sia o meno un opera d’arte e più il messaggio dell’artista si fa críptico, più si rende necessaria una spiegazione.

Non mi stupisce, quindi, che uno dei quesiti più googlati sia: «Perché non capiamo l’arte contemporanea?». Non mi stupisce neanche che Barca Nostra, relitto del peschereccio affondato il 18 aprile 2015, in cui morirono 700 migranti, arrivato a Veneziacome simbolo delle 59° Esposizione Internazionale d’Arte, inaugurata l’11 Maggio, abbia scatenato l’ennesima discussione sui confini dell’arte. In molti non hanno gradito l’arrivo del relitto in un contesto come quello della Biennale, dove artisti provenienti da tutto il mondo espongono le loro opere. Qualcuno lo trova oltraggioso e poco rispettoso. Anche qualche politico si è espresso «D’arte non mi intendo, ma questa è senz’altro una madornale sciocchezza» (Gianantonio Da Re).«Parlerà alle nostre coscienze», così ha giustificato Barca Nostrail curatore della rassegna, Ralph Rugoff. La Biennale di Venezia, quindi, sposa appieno il concetto di arte, come strumento di pensiero e non è la prima volta che fa parlare di sé in questo senso. Già al suo esordio, nel 1895, fece scalpore perché venne esposto un quadro, Il Supremo Convegno, rappresentante cinque donne nude intorno a un feretro. Da ricordare anche la polemica del 1922, quando la Biennale decise di esporre le sculture provenienti dall’Africa, causando una sommossa; o nel 1972, quando venne esposto un ragazzo affetto dalla sindrome di Down, seduto su una sedia all’interno di un’installazione, ci fu addirittura un’interpellanza parlamentare; o quando nel 1974, l’intera esposizione fu dedicata al Cile, in segno di protesta contro il regime di Pinochet; nel 1997, è stata Marina Abramovich a sconvolgere con la sua opera dedicata alla guerra nell’ex Jugoslavia, in cui si è esibita pulendo 1.500 ossa di bovino. L’ultimo scandalo è firmato Christoph Buchel, autore appunto di Barca Nostra, che già nel 2015 aveva fatto scalpore, trasformando una Chiesa Cristiana in una Moschea, all’interno del padiglione. Insomma, forse l’arte è veramente «l’ultimo baluardo di denuncia», come ha dichiarato la direttrice della Biennale del 2017, Christine Macel? Io non lo so, sto ancora riflettendo su cosa sia per me arte! Ma piuttosto che lasciarvi con una risposta, voglio concludere con una domanda: alla luce di quanto scritto, secondo voi, Barca Nostraè arte?