Intervista al “Giovane” filosofo Leonardo Caffo

Autori:

Di Stefania Spadoni

Leonardo Caffo è un filosofo, un insegnante, uno scrittore, un giornalista di 31 anni.

In Italia questa frase verrebbe riportata così: Leonardo Caffo è un giovane filosofo, un giovane insegnante, un giovane scrittore, un giovane giornalista.

Ma lui non è propriamente d’accordo con quest’aggettivo che lo accompagna in ogni suo intervento, citazione, o articolo. 

Leonardo perché ti infastidisce essere chiamato «giovane»?

«È un’arma a doppio taglio che assume troppo spesso una valenza negativa, come a voler sottolineare che sono troppo “piccolo” per i ruoli che ricopro. Eppure Dante quando scriveva “Nel mezzo del cammin di nostra vita…” aveva più o meno la mia età».  

Il nostro ministro del lavoro ha solo 33 anni…

«La cosa interessante è che in Italia, forse anche per via di tutto quello che è successo con i movimenti populisti, si è sbloccato il meccanismo del patto generazionale in politica, invece nella società civile non ha funzionato. Quindi le vere cariche di potere culturale, accademico, giornalistico, in parte anche imprenditoriale, non sono in mano ai giovani». 

Ti hanno mai attaccato per il fatto di essere troppo giovane?

«Sì, ad esempio sulla rivista Frammenti, un ragazzo di 23 anni ha fatto un articolo sul mio libro Fragile umanità, criticando il fatto che io sia troppo giovane. Di fatto sono i ragazzi stessi che si sono auto massacrati, perché se sei il primo a pensare che la gioventù sia un aggettivo che indica il non essere all’altezza e che la vecchiaia sia invece garanzia di qualità, stai scambiando l’esperienza con l’anzianità. Il problema è che in Italia si è considerati “giovani” fino a 45 anni, che paradossalmente è l’età media in cui le statistiche mediche ci dicono ci si ammali di cancro. Siamo quindi condannati a morire giovani?». 

Leonardo Caffo interpretato da Max Ramezzana

Toccando il tema della sanità, in un Paese come il nostro dove un terzo della popolazione è anziana, cosa ne pensi di questa nuova longevità che pesa tantissimo sul sistema sanitario nazionale e spesso non corrisponde a un’elevata qualità della vita?

«Il problema è che il nostro sistema di welfare è basato sul boom economico degli anni sessanta, ma nel frattempo il mondo è cambiato e quindi il welfare non è più proporzionato al sistema pensionistico, all’allungamento della vita e soprattutto alle nuove esigenze della famiglia contemporanea. È difficile in queste condizioni generare nuova vita. Di fatto c’è un blocco. La società si dovrebbe riorganizzare, ma in un periodo così critico in cui stiamo assistendo al ritorno dei nazionalismi, è evidente che l’unica soluzione possibile è una federazione di Stati che potremmo chiamare Stati Uniti d’Europa, in cui il welfare state non è più un peso nazionale, ma un peso europeo. Tutto andrebbe riorganizzato, più che un patto generazionale bisognerebbe fare una distruzione del patto generazionale e comprendere che le energie intellettuali migliori sono giovani. L’esperienza serve per fare altro».

Quando parli di distruzione, intendi anche rottamazione degli anziani?

«Rottamazione non è il termine giusto perché implica l’idea dell’uomo macchina, è una metafora sbagliata. Questa è quella terribile terminologia aziendale delle Risorse Umane. Io non sono una risorsa, sono vita e non è vero che una vita giovane o una vita anziana valgano in maniera differente. Quello che va distrutto è il sistema economico– produttivo neoliberale, basato su un impatto economico che non c’è più. Bisogna cominciare a pensare che cosa sia una società senza lavoro. Sostanzialmente in una società di questo tipo post– lavorativa i debiti nazionali potrebbero essere risanati con il business dei big data, dall’accumulo algoritmico delle informazioni, dal lavoro terziario che noi facciamo mentre siamo sui social e generiamo preferenze. Generiamo in continuazione soldi che non vediamo. Andrebbero tassate tutte le corporate, bisognerebbe pensare a un mondo molto più vicino al volontariato, cercare di entrare subito nel mercato del lavoro e uscirne molto prima. Il lavoro come concetto materiale è terminato, non abbiamo più bisogno di manovalanza. Post lavoro significa questa cosa qui: dare la possibilità all’umanità occidentale, che è quella più imbrigliata in questo sistema, di cominciare a vivere la vita con un nuovo concetto di tempo». 

Come rientrano in questo discorso le categorie umane più fragili, vanno tutelate?

«Loro sono la priorità. Una società è civile tanto quanto più riesce a gestire la diversità senza farla sentire diversa. Finché il welfare è un sistema in cui c’è l’esigenza di istituire un Ministero della Disabilità, quello non è un buon welfare. Se io ho un problema non lo devo percepire come un problema, lo devo sentire come un mio modo di stare al mondo. Il contratto sociale va impostato sulla debolezza, non sulla forza. Sono fallimentari i tentativi politici di riportare tutto alla norma. C’è una totale assenza di norma nella vita. La vita non ha regole, ha fatti». 

Come fa l’essere umano, con i suoi impulsi, a gestirsi in un mondo senza regole?

«Questa nuova società trasparente, legata ai social, dove tutti i punti di vista sono orizzontali, potrà essere gestita soltanto da una macchina. C’è bisogno di chi prende decisioni in maniera oggettiva, non si possono esprimere i disinformati. Non è una limitazione della libertà di pensiero, ma una consapevolezza che la libertà di pensiero sia il potersi affidare alla migliore decisione possibile, per il bene comune. Ci sono dei temi sui quali non si può legiferare con la propria opinione, perché sono beni comuni: la morale, l’ambiente, i diritti umani, la libera circolazione dell’essere umano.

Quindi, posto che esistano dei beni comuni, o si tutelano con l’oggettività, o si ripristinano degli organi democratici di divisione del lavoro sociale e di quello linguistico».

Bisogna quindi ricostruire un sistema di fiducia?

«Sì, facendo attenzione che non si trasformi in sistema di controllo. Per creare un nuovo patto di fiducia bisogna far capire che il bene comune porta vantaggi a tutta l’umanità». 

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