Intervista all’ex curatore della Biennale Daniele Radini Tedeschi

Autori:

Di Loredana Beatrici

Abbiamo voluto porre il quesito principe di questo numero del Bullone anche ad una persona che all’arte dedica tutta la vita: il critico Daniele Radini Tedeschi, più volte Curatore e Commissario di alcuni padiglioni della Biennale di Venezia. Partiamo dalla domanda a cui stiamo provando a rispondere tutti:

Che cos’è l’arte?

 «L’arte è espressione dell’animo umano. È un linguaggio universale che tutti riescono a comprendere, ma che ognuno può leggere in modo soggettivo».

Sta dicendo che non esiste un solo modo di interpretare un’opera d’arte?

«Ormai no. Questo accadeva in passato, quando l’arte utilizzava il linguaggio della bellezza, riconosciuto da tutti. Nel ‘900 c’è stata un’inversione di tendenza e l’artista ha iniziato ad attaccare il pubblico, cercando di apparire dissacratorio e violento. Non gli interessa produrre il bello, ma far parlare di sé». 

E’ per questo che l’artista è diventato sempre più trasgressivo, stravagante? 

«A dire il vero anche nel Rinascimento gli artisti erano stravaganti, ma solo nella vita. Nell’arte erano diligenti, cercavano la perfezione accademica. Oggi, se dici diligente a un artista, si offende perché cerca la notizia». 

Come si fa a capire quando è arte o provocazione? 

«Per me è sempre necessario rispondere al criterio del gusto. Prendiamo Lucio Fontana: lui era provocatorio, ma era anche un esteta. I suoi tagli sulla tela non rappresentano solo la volontà di distruggere, ma di andare oltre e c’è sempre il tentativo di mantenere un valore estetico. Ancora oggi una sua tela è considerata bella. Ormai riconosco questa valenza artistica solo nell’1% delle opere. A volte c’è l’intento iniziale, ma poi ci si perde nelle regole dello star system. Marina Abramovich, per esempio, quando ha iniziato a presentare le sue performances, aveva dietro le idee originali e la riflessione ponderata di Ulay. Adesso mi sembra sempre più proiettata al successo mediatico». 

Ma chi decreta se qualcosa è un’opera d’arte o meno?

«A decidere tutto è il sistema dell’arte, una sorta di salotto buono in cui siedono galleristi internazionali (che abbiano almeno una Tatea Londra, New York o Hong Kong), i direttori di musei e… gli artisti. Viviamo nell’epoca in cui sono gli artisti stessi a decretare cosa sia arte».

E i critici? Non siedono in quel salotto?

«Sono fuori da questo processo. Al museo le opere arrivano perché è stato deciso nel salotto. Il critico è chiamato poi a farne l’elogio».

Secondo Lei l’arte che ruolo dovrebbe avere in una società? 

«L’arte oggi è uno strumento potentissimo perché è arrivata alla gente. Sta vivendo un exploit mai vissuto prima: ne parlano i giornali, se ne parla sui social, fuori dai musei ci sono file chilometriche. Per me dovrebbe, quindi, ricordarsi di veicolare i messaggi necessari alla società (non all’artista)». 

Questo avviene in una vetrina così importante come la Biennale di Venezia?

«Purtroppo no, nonostante sia una delle mostre più importanti al mondo, anche qui c’è la tendenza a valorizzare le opere strappa-applausi». 

Eppure il suo direttore, quest’anno, ha chiesto agli artisti proprio di interpretare in modo critico i tempi attuali. Qualcuno ha parlato anche di arte politica

«È una biennale al 100% politica, è vero. Infatti non ha avuto diffusione a livello mediatico. Non è stata acclamata, né stroncata. Si è semplicemente taciuto. La ragione è politica, perché quando una mostra è troppo politicizzata, dall’altra parte si può anche non accettare che l’arte debba veicolare solo quel messaggo». 

Ma secondo Lei l’arte non dovrebbe battersi per i temi politici?

«L’arte deve battersi per la libertà. Ha senso che sia ribellione contro il potere, se c’è una repressione. Non ribellione fine a se stessa, per far notizia. Mi aspettavo, per esempio, di trovare nel padiglione Venezuela una forte condanna alla dittatura di Maduro, mi aspettavo di vedere qualcosa con la stessa valenza di un Guernicadi Picasso. Invece nulla».

Devo farla anche a Lei questa domanda: Barca Nostraè arte?

«Purtroppo non è arte, è solo la testimonianza di una tragedia umana. Se l’artista avesse ricreato un barcone, fatto affondare e portato lì, sarebbe stata un’opera d’arte, così è solo l’appropriazione di una notizia per fare notizia. Quando Duchamp presentò l’urinatoio, lo fece con ironia, pronto alle critiche, invece qui non si può criticare, perché si sta parlando di un tema troppo delicato. La cosa brutta di Barca Nostraè che nasconde un ricatto: ti impone una riflessione per qualcosa che non ha fatto l’artista. Io voglio considerare l’artista, non il fatto esterno. Siamo in Biennale, non in Parlamento». 

Lei cosa mostrerebbe in una grande esposizione come la Biennale?

«Io farei una mostra sui falliti, su quelli che avevano o hanno un gran talento, ma non entrano nel sistema dell’arte. Vi suggerisco di andare a sbirciare le opere di Mikel Gjokaj. È un talento straordinario, escluso da sempre. Vive in Italia come un eremita. Sono andato a trovarlo nel suo studio, ma non fa entrare quasi nessuno. Lui non fa notizia, fa arte. È questo che dovrebbe esaltare la Biennale di Venezia».

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