Di Sarah Kamsu
Era esattamente il 31 marzo 2017 quando Paul Kpelly, Stefano Golfari, Otto Bitjoka ed io tenemmo la conferenza al liceo Manzoni di Milano: «Ritornare in Africa».
In quell’occasione dissi: «Ci vuole coraggio per tornare in Africa, rimboccarsi le maniche e cambiare le cose, ma sulla stessa onda di Cina e India, un continente così vasto e variegato, unito può fare la differenza».
Persi i contatti con Paul per un po’ di tempo, ma grazie ai Social seguivo i suoi passi: il suo ritorno in Africa, il suo tour nei paesi limitrofi al Togo, la sua prima expĂ©rience imprenditoriale in Burkina Faso. Da quasi due anni Paul Kpelly venuto in Italia dal Togo, è tornato in patria dopo circa 12 anni, dalla sua famiglia, da sua mamma, la sua fotocopia. A meno di trent’anni è il fondatore di Kpelly Center, un mini centro commerciale, nella capitale togolese LomĂ©, in cui offre un servizio di lavanderia, un salone di bellezza, un barber shop e dove è possibile gustare il suo caffè battezzato Leon King coffee.
Un caffè 100% biologico, naturale e soprattutto made in Togo.
Una lavanderia? Per noi potrebbe essere scontato, ma in molte famiglie togolesi la lavatrice è un bene di lusso. I panni vengono lavati a mano, lasciati asciugare al sole con le mollette sulle corde, fa pensare un po’ all’Italia degli anni 60 o, nel mio immaginario, a oggi in qualche quartiere spagnolo di Napoli. E il caffè?
Paul avendo avuto l’esperienza della vita in Italia, ha assorbito la cultura e l’amore che gli italiani nutrono per il caffè, espresso, ristretto, lungo, macchiato, americano, il caffè appena svegli, il caffè a metĂ mattina, a pranzo, le pause caffè in ufficio, al bar.
Mentre studiava giurisprudenza si è interessato al mercato del caffè che è risultato essere il secondo prodotto più scambiato a livello globale dopo il petrolio, il suo consumo è in forte crescita in tutto il mondo, è la seconda bevanda più bevuta al mondo dopo l’acqua.
Il caffè che beviamo viene da molto lontano, dalle rigogliose piantagioni della cosiddetta «cintura del caffè» lungo l’equatore (Africa, Sud America, Asia)
E coltivato da coraggiosi agricoltori che si svegliano alle prime luci dell’alba.
La pianta del caffè, una sempreverde, cresce lentamente. I suoi frutti prima di essere chicchi sono ciliegie, chiamate anche drupe, verdi quando sono acerbe e rosse scure quando sono mature. Come pianta è molto esigente con l’ambiente che la circonda, nella temperatura, nelle precipitazioni, nelle condizioni del terreno, nella luce solare, nell’altitudine: tutto deve essere combinato in modo particolare se si vuole ottenere un caffè eccellente.
Il Togo è un modesto produttore di caffè, ma l’ambizione di Paul è spodestare il gigante NescafĂ© e prendere il controllo del caffè made in Togo.
Paul oggi gestisce piantagioni a Kpalime, una cittadina togolese e presto a Badou e la trasformazione ancora ridotta – 20 kili a settimana – viene effettuata in parte a LomĂ©. Il modello Kpelly è produrre sul posto, trasformare sul posto creando impianti di lavorazione e vendere il caffè direttamente ai consumatori (così che il caffè non venga interamente esportato, trattato all’estero e rivenduto sul mercato togolese piĂą caro) e passare alla commercializzazione stile «Starbucks».
I prossimi passi della scalata Kpelly sono: acquistare macchinari per una produzione industriale, creare un marchio internazionale ed esportare i suoi prodotti all’estero.
Quando ho conosciuto Paul si definiva un sognatore, un abile oratore; a Milano aveva creato un brand di abbigliamento «Tk22», chiamato anche «the tribe of Milano», vestiti made in Italy che mettevano insieme due mondi, due culture, due stili: quello africano e quello europeo.
Oggi Paul si definisce così: un giovane imprenditore togolese che non dorme sugli allori e che sta contribuendo al sogno africano.
Paul è sempre stato uno dallo spirito creatore. O come li chiamo io un «light engineer», un ingegnere della luce, una persona capace di progettare la luce dell’avvenire, che costruirĂ da solo, o insieme ad altri. Una persona capace di essere Luce per se stessa e gli altri, capace di costruire nella sua mente scenari mai visti, nuove combinazioni di mondi, di idee che funzionano e non siano solo immaginario.
L’imprenditoria, dice lui, è una sfida di merito, e per affrontarla ci vuole molto di piĂą del semplice desiderio di accumulare e fare soldi.
Il denaro è la ricompensa, o meglio la conseguenza, di un lavoro ben fatto.
Ad esempio fare qualcosa di concreto per gli altri, per la societĂ o per salvare la vita anche di un solo giovane africano, offrendogli lavoro invece di rischiarla in un viaggio della speranza verso l’Europa, attraversando il Mediterraneo su una barca sgangherata.
Paul è partito da un‘idea grezza, abbozzata e con soli 500 euro si è avviato aprendo un negozio con sole 4 lavatrici.
E poi l’idea del resto (il salone di bellezza, il bar, il caffè) è arrivata col tempo, pian piano, con i primi feedback e allargando le sue relazioni.
Non bisogna aspettare di avere grandi capitali, il prodotto o il servizio perfetto.
Parti in piccolo, anche se hai grandissime ambizioni.
La sua visione è costruire il sogno africano, vorrebbe un’Africa che crea aziende capaci di offrire posti di lavoro stabili, in modo che i giovani africani non debbano emigrare per necessitĂ .
Io ci credo e anch’io sulle orme del mio caro fratello Paul punto al sogno africano, mi piacerebbe contribuire alla sua rinascita e anche se adesso mi godo il quotidiano italiano, ci penso praticamente ogni giorno.