Come si supera la morte di chi si ama?
Di Sofia Segre Reinach
Sofia
Ad agosto è mancato Alessandro, un B.Liver. La necessità del Bullone di affrontare il tema della morte, del dolore e dell’andare oltre, nasce da qui. In questa conversazione abbiamo messo insieme tre esperienze. Momcilo Jankovic, pediatra oncoematologo; Bill Niada, fondatore di Fondazione Magica Cleme e B.LIVE; Giancarlo Perego, giornalista e volontario, direttore delBullone.
Quando perdiamo qualcuno, rimane un vuoto insostituibile. Si può trasformare?
Giancarlo
Ho incontrato alcune mamme che hanno perso un figlio e ho capito che non esiste separazione definitiva finché esiste il ricordo. Il ricordo non è astratto, si tocca tutti i giorni, si può far rivivere, evolvere. La vita si spezza. È fondamentale elaborare il lutto.
Momcilo
Davanti alla perdita, si è sgomenti e impotenti. Ma la morte fa parte della vita. Paragono il ricordo a Cicatrici, che avete fatto con B.LIVE. La cicatrice è la rottura di un tessuto, può essere bellissima e perfetta, ma è sempre qualcosa che non c’è più.
La morte può giungere in diversi modi: improvvisa, o in seguito a una malattia. La morte di un figlio è devastante, è impossibile trovare un cerotto per sistemare la cosa. La rielaborazione del lutto è difficile, ma è importante. Su questo noi medici e tutte le persone vicine al malato, abbiamo un ruolo.
Ho fatto passare un pomeriggio a due ragazze con George Clooney. Anni dopo, le loro mamme hanno iniziato a telefonarmi sempre nell’anniversario di quel giorno, non in quello della morte delle loro figlie. Questo è significativo, non vuol dire che hanno superato il dolore, penso non avverrà mai, ma che hanno iniziato a rielaborare il lutto, ricordando i momenti belli.
La malattia in certi casi, è più forte di quello che noi vorremo, e l’aiuto che possiamo dare a queste persone è aiutarle a tirare fuori le proprie risorse. Non si tratta di accudirle, ma di incentivarle ad attivarsi con le proprie capacità e i propri mezzi.
Bill
Io sono d’accordo sul fatto che il ricordo sia il sistema per tenere in vita una persona cara. Credo sia importante per tutti vedere che questa persona era amata, questo affetto lo vivi come orgoglio anche tu. Ma con il tempo, questa ondata emotiva si smorza, ognuno torna alla propria vita. Quindi, se vuoi mantenere una situazione di affetto e di amore vivo, devi cercare di mantenere vivo il ricordo. Ed è per questo che nascono fondazioni e progetti in memoria di qualcuno.
Spesso mi succede che quando qualcuno perde un figlio mi chieda un consiglio, un aiuto. Come l’altro ieri, un’amica che ha perso un figlio d’improvviso.
E mi sono interrogato sulla differenza di quando qualcuno perde improvvisamente, da un giorno all’altro un affetto. Rispetto a chi, come me, ha passato sette anni, tutti giorni a pensare che un giorno sua figlia non ci sarebbe più stata. Io ho avuto il tempo di elaborare, di cercare ragioni, risorse, giustificazioni, cercando di prevedere anche la mia vita dopo, però nel frattempo ho vissuto sette lunghi anni orribili.
Sono due situazioni completamente differenti, è sicuramente molto brutto perdere improvvisamente una persona, ma è altrettanto faticoso accompagnare il malato nel suo percorso.
Giancarlo
Da quando sono un volontario di B.LIVE, penso che morire sia come rinascere. Quando qualcuno muore, entri in una dimensione totalmente diversa. Esiste una dimensione fuori dall’ordinarietà che deve diventare quotidianità; è rinascere attraverso una sofferenza atroce. Penso ai parenti, ma anche ai medici, come te Momcilo, che nella tua vita professionale hai visto morire 600 bambini; ai volontari, 800.000 in Italia, che hanno vissuto esperienze forti. Per me diventa impossibile rielaborare la morte di un ragazzo. Io che sono cinico per professione, non riesco ad elaborare questi lutti come ho fatto con i miei genitori, con alcuni amici. Non voglio essere razionale, voglio far parlare il cuore e l’esperienza.
Momcilo
Riprendo un momento l’argomento di Bill. Una signora che ha perso un figlio vuole parlare con lui. Parte dell’elaborazione del lutto è capire che non ci sono state responsabilità proprie. Quando un genitore ha lottato per la malattia di suo figlio, quello su cui vuole sentirsi rinforzato è che ha fatto tutto quello che poteva fare. Qui trovo il senso degli incontri. Io ho assistito circa 400 famiglie. Li aiuti a liberarsi da quel senso di angoscia di non aver fatto il possibile per salvare il loro caro. Un dubbio che scava dentro l’animo, che corrode, piano piano. Se non ci si libera di questo, l’elaborazione del lutto rimane ferma.
Bill
Dopo il percorso fatto con Clementina, ho cambiato modo di vedere le cose.
Per me il dramma è il momento della diagnosi, quando sai che quella persona si è ammalata. Il percorso oncologico per me è stato una sorta di calvario. Tanti alti e bassi, e poi, alla fine, un periodo di grande sofferenza: il momento del distacco. Questo in fondo è una liberazione, la persona malata va a stare meglio. Interrompe un percorso estremamente pesante, faticoso.
Però questo sacrificio deve aver rappresentato un motivo per far sì che le persone attorno a lei capissero, vedessero cose differenti. Per poi passare, entrare in una dimensione diversa dalla nostra, in cui però continua ad esistere e da cui tornerà sulla Terra, con un altro corpo, con un’altra esperienza di vita.
Quello in cui credo è che le stesse persone, le stesse relazioni che tu avevi in questa vita, le riavrai in una vita futura. In maniera da poter perdonare e amare, sistemare o continuare dei rapporti che hai interrotto in questa esperienza. Quindi la vedo come un processo, dove ogni giorno vivi delle situazioni differenti, con un bagaglio di esperienze e di vite vissute, che ti permettono poi di arrivare a una meta di maggior serenità e consapevolezza.
Momcilo
Ecco, questo è uno sforzo non banale, Bill. Ma non è comune. Tu l’hai vissuto, il lutto, e sei riuscito a trasformarlo. Mio cognato è morto improvvisamente a 48 anni su un campo da tennis. Mia sorella, dopo vent’anni, prova ancora un dolore immenso. L’altra prospettiva è pensare a tutto quello che hanno fatto e costruito insieme. Erano una bella coppia, hanno avuto tre figli… più di così cosa puoi fare? Qui mi riallaccio al discorso dell’ ineluttabilità. Questa è la vita, non possiamo combatterla. Non voglio sembrare semplicistico, ma cerco di essere un po’ pratico e dire «vediamo in effetti cosa si può fare». Ecco gli incontri, il parlare, il condividere.
Bill, vedrai che aiuterai moltissimo questa signora che ti ha chiesto di parlarle delle tua esperienza.
Sofia
Due domande. Questo dolore, può essere condiviso?
Oggi, dai social, al cinema, ai media, sembra esserci un’invasione di storie di malattia e morte. C’è un modo per far sì che questi temi non siano tabù, senza scadere nella strumentalizzazione?
Momcilo
Il rischio è che il dolore generi pietismo e commiserazione. È quello che più comunemente accade e penso sia sbagliato.
Io credo nel dolore dell’altro, valuto quale sia il modo migliore per stargli accanto. La cosa importante è lasciarlo parlare. Ma devi avere la capacità di ascoltare e filtrare quello che ti viene detto.
Io vedo la cattiveria che dilaga oggi. Penso che non sia la struttura a fare la bellezza, ma la gente. Oggi la gente è cambiata. C’è un cinismo che fa quasi paura. Prendi la denigrazione verso Mihajlovic. Lo sento tutti i giorni, è una persona comune. L’errore è stato quello di pubblicizzarlo troppo.
Anche l’esempio di Nadia Toffa per me è stato un po’ penoso. In primis perché lei l’ha annunciato come una vittoria. Così può venire danneggiata anche la scienza medica. Le persone pensano: «è inutile, tanto è morta lo stesso». Ma molti guariscono, e non si vede. Quello dei media è un fenomeno che non si riesce a frenare facilmente.
Giancarlo
I media non sono preparati ad affrontare il dolore, la malattia.
Noi invece lavoriamo per normalizzare malattia e morte. La domanda è: «Cosa si può fare?» Per me, oltre a parlarne, stare insieme, non lasciare soli, è fondamentale costruire una rete tra scienza, volontariato, famiglie, dentro l’impegno civico di alto livello.
Se subisci una perdita, che non vuol dire solo morire fisicamente, ma anche avere una malattia cronica, per esempio, devi rinascere, combattere, diventare consapevole di chi sei, ricostruirti un altro mondo. Vale per tutti.
Il nostro compito dovrebbe essere stare insieme dentro la società ed elevare questi temi attraverso l’educazione dei media.
Bill
Tutti noi siamo sempre alla ricerca dell’attenzione degli altri e questi sono motivi fortissimi per ottenerla. Anche chi critica e dice cose orribili cerca attenzione. Purtroppo nella società di oggi, dove la piazza non è più fisica, ma mediatica, tutti possono parlare. Mentre prima le esternazioni venivano circoscritte, adesso si condividono con milioni di persone. Credo che la vera difficoltà stia riuscire ad ingannare le nostre menti dal dolore. È necessario coltivare altri stimoli come l’affetto, il lavoro. Trovare qualche cosa che ti distragga dandoti momenti di serenità, mettendoti nelle condizioni di avviare un processo dove piano piano la tua mente riesce a mettere delle cicatrici, distraendosi dal solo argomento che ti fa soffrire, che se diventa totalizzante, può portarti alla pazzia. Nel momento in cui pensi in maniera ossessiva a una cosa che non puoi risolvere, veramente puoi impazzire. Nel mio caso, creare una fondazione a nome di mia figlia, riuscire a permettere ad altre persone di stare meglio o comunque aiutarli a lenire la loro sofferenza, mi ha allontanato dalla fatica e dalla sofferenza, senza però allontanarmi da mia figlia. Credo sia una cosa positiva.
Giancarlo
Vi leggo una frase tratta da Paula, il libro di Isabel AIIende sulla morte della figlia.
«Sentii che mi stavo immergendo in quell’acqua fresca e seppi che il viaggio attraverso il dolore finiva in un vuoto assoluto. Svegliandomi ebbi la rivelazione che quel vuoto è pieno di tutto ciò che contiene l’universo e nulla e tutto nello stesso tempo. Sono immortale». In quel vuoto, c’è tutto, c’è la vita.
Noi camminiamo col dolore, alcune volte esce, altre no.
Alcune volte è piccolo, altre grande. Alcune volte è straziante. Ma quel vuoto, riguarda tutti. Pensate alla depressione. Come si fa a riempire quel vuoto? È una questione di relazioni. Alessandro, venti giorni prima di morire ha detto: «Dovevo partire per la Svezia ma non vado. La felicità non è andare in Svezia, ma avere attorno le persone care». È una strada che io considero molto forte.
Momcilo
Veronica, 13 anni, prima di morire ha scritto: «Quello che conta non è apprezzare la vita, ma è saper cogliere il momento in cui finisce». È un invito a tutti, ecco cosa possiamo fare.
Nel lutto, il dolore non scomparirà mai. La cicatrice è per sempre, la pelle lì non è più integra.
Quello che si può fare, è renderla accettabile, portarla su un terreno in cui si possono elaborare determinate cose. Torno a mia sorella, cosa poteva fare di più? Lui si curava, si trattava, si controllava. Allora, ecco dove dico che c’è l’ineluttabilità, la vita è questa.
Attutire il dolore è compito nostro.
Bill
Inoltre credo che la cosa importante sia arrivare alla morte, per chi può, in maniera consapevole. Essere contenti di se stessi, sapere di aver fatto il proprio dovere. Credo che arrivarci con infelicità e rancori, amplifichi il senso di distacco, perché non hai fatto un viaggio completo. È uno strappo, un’interruzione.
Sofia
Parlando con le persone, mi ha colpito il senso di rabbia, probabilmente legato a quello che Momcilo indica come senso di colpa. Spesso verso medici e luoghi di cura. Ti sei mai sentito attaccato?
Momcilo
Come medico devo usare la mia intelligenza, perché capisco benissimo il dramma di un genitore. Faccio un passo indietro. Il bambino nella fase finale che tratta male la madre, la manda a quel paese. La odia? Lei spesso lo interpreta così. Per me è il senso massimo di amore. Una bambina ha mandato il padre a prendere il caffè e poi mi è morta in braccio.
Il papà era disperato, gli ho detto: «Lei ha dato tutto quello che poteva dare, ma sua figlia l’ha allontanata per evitarle il dramma maggiore, quello di vederla morire». È un atto di amore.
Io non mi sono mai sentito offeso. La rabbia ci sta, ma poi va trasformata perché ci si fa del male.
Un’altra cosa importante è il fattore tempo. Spesso lo demonizziamo, vogliamo risolvere tutto subito, pensare che ci sia la soluzione immediata. Invece no. Bisogna accompagnare la persona in un percorso di comprensione. Il tempo è terapeutico.
La medicina ha i suoi limiti. Non conosciamo l’origine del 30% delle malattie. Ma la comunicazione è alla base di tutto. Spesso siamo superficiali, banalizziamo o usiamo termini incomprensibili.
Giancarlo
Rispetto alla rabbia, penso alla mamma di Andrea, un ragazzo che non c’è più. Catechista, parte dell’oratorio, a un certo punto dice: «Basta, io non credo più. Non vado più in chiesa. Voglio stare da sola». Ma se tu credi prima, non devi credere anche dopo?.
Se credo, non posso aspettare che mio figlio non ci sia più per smettere di farlo. Perché non penserei a chi ha già perso. Per alcune persone la fede è determinante per sopravvivere. Per me la chiave è stare insieme, allargarsi sempre di più e far diventare questo un caso sociale, mettendo insieme medici, volontari, associazioni, politica…
Momcilo
È vero, nella mia esperienza ho visto gente perdere la fede e poi riacquistarla. Il tempo e le persone vicine ti devono aiutare a riflettere. Il dolore rimarrà sempre, ma sarà mitigato, ti consentirà di andare avanti a vivere.
Giancarlo
Cosa vorreste fare che non avete fatto?
Momcilo
Spesso ci penso, ma alla fine della giornata, l’impegno e le cose in cui credo e il riuscire in parte a trasmetterle, mi rendono contento.
Bill
Io sono contento di me stesso, sono molto grato di poter fare quello che faccio.
Provo rabbia nel vedere attorno a me persone che potrebbero fare cose realmente utili e che invece continuano a correre ciecamente verso qualcosa che fa danni, a loro e agli altri.
È un peccato dover per forza diventare vecchi ed essere vicini alla morte per comprendere quello che è realmente utile.