Curare i tumori con la stampa 3D

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Intervista a Cristina Scielzo, ricercatrice del San Raffaele di Milano.

Di Annagiulia Dallera

La ricerca, un mondo affascinante, di cui si sente parlare sempre. Abbiamo avuto la fortuna di parlare con la dottoressa Cristina Scielzo, un’autorità nel campo dello studio delle cellule leucemiche, che è stata così generosa da svelarci i segreti del suo delicato lavoro rendendoli comprensibili al nostro orecchio inesperto.

Di cosa vi occupate nel vostro laboratorio?

«Stiamo studiando la leucemia linfocitica cronica che è quella più diffusa nel mondo occidentale. È principalmente una leucemia dell’adulto, tuttora incurabile. Noi ci occupiamo soprattutto di studiare le interazioni tra le cellule leucemiche e l’ambiente dove crescono e come questo interferisce con la risposta alla terapia. Negli ultimi due anni abbiamo iniziato a sviluppare dei modelli tridimensionali grazie all’utilizzo di una stampante 3D. C’è tanto da fare ma penso sia molto promettente».

Cosa si aspetta come risultato della ricerca? 

«L’obiettivo principale è di ricostruire, nella maniera più fisiologica possibile, quello che succede nei tessuti nei pazienti. Attraverso lo sviluppo dei nostri modelli potremo sia testare le nuove terapie, sia studiare meccanismi biologici che ancora non conosciamo».

Come si misura la qualità e l’efficienza del suo laboratorio?

«Bisogna ottenere risultati, sia positivi che negativi: occorre concretizzare quello che si fa. Al San Raffaele siamo controllati e abbiamo i mezzi per lavorare in sicurezza e nel migliore dei modi».

Cosa differenzia il San Raffaele da altri ospedali? 

«C’è una connessione fortissima tra l’ospedale, l’Università e il nostro centro di ricerca. Questo ci permette di avere un diretto contatto con medici, pazienti e con il materiale biologico su cui studiare. È un valore aggiunto che non molti istituti di ricerca hanno a disposizione».

Un momento dell’intervista dei B.Livers a Cristina Scielzo (Foto: Sandra Riva)

La scintilla può partire anche da un genitore deluso che chiede di trovare una cura per il figlio?

«A me non è mai successo. Forse i medici sono più esposti a questa situazione. Quello che succede più spesso è che mi chiedano: “A che punto siamo? C’è speranza di curare il tumore?”». 

Glielo chiediamo anche noi…

«C’è molto da fare ancora ma credo che la ricerca abbia fatto passi da gigante. Ora la tecnologia sta andando talmente veloce che dobbiamo cercare di adeguarci, perché generiamo una valanga di informazioni che dobbiamo capire come analizzare in tempi ragionevoli. Mi fa rabbia pensare a quello che noi italiani potremmo fare se solo avessimo i mezzi, se fossimo sostenuti maggiormente dai finanziamenti pubblici».

Si fa più ricerca sulle malattie maggiormente diffuse mentre quelle rare vengono lasciate in un angolo. Secondo lei quale potrebbe essere il motivo?

«Fare ricerca sulle malattie rare è complicato: spesso non si ha il materiale su cui andare a fare gli studi. Per ottenere dei finanziamenti bisogna avere dei dati preliminari e anche un potenziale per fare in concreto quello che tu proponi. Si riesce a fare ricerca su questo tipo di malattie in ospedali di riferimento che attirano grandi numeri di pazienti affetti dalla malattia in questione. Al momento le malattie incurabili penso siano al primo posto dell’interesse dei ricercatori e sono anche quelle più facilmente finanziabili».

Che rapporto ha con il tempo, come donna e come ricercatrice?

«Siamo bombardati di scadenze, di cose da fare, tempistiche da rispettare: impari a dare il giusto peso alle cose, a goderti quello che hai. Questo mestiere mi ha aiutato a selezionare quello che conta».

La ricerca in sé ha dei tempi: lavorare tutta la vita per dei risultati che magari non arriveranno. Qual è la sua visione riguardo a questo aspetto?

«A volte lavori tantissimo per mesi e ti sembra di non aver fatto niente perché i tempi sono molto lunghi. Basta un niente e può saltare un esperimento, ma cerco di non focalizzarmi su questo e penso ai risultati che comunque presto o tardi arrivano».

Vogliamo sfatare il mito del ricercatore, «topo da laboratorio», sempre chino sul suo microscopio?

«Non posso sfatarlo del tutto anche se si fanno tantissime cose diverse: vai ai seminari, ai congressi, interagisci con tutto il mondo e collabori con tante figure professionali». 

Fare ricerca all’estero e farla in Italia: quali le differenze?

«La diversità una volta era più netta. Oggi la ricerca non è in crisi solo in Italia ma in quasi tutta Europa e anche negli USA. Forse la Cina è l’unica che in questo momento sta crescendo in maniera “tranquilla”. In generale temo che i giovani stiano perdendo fiducia nell’intraprendere questo percorso perché è pieno di incertezze e molti hanno voglia di avere un posto fisso, obiettivo non facile da raggiungere. È diventato tutto più difficile, più competitivo, anche perché ci autofinanziamo: in altri Paesi sicuramente lo Stato supporta di più».

Un momento dell’intervista dei B.Livers a Cristina Scielzo (Foto: Sandra Riva)

Cosa consiglia ai futuri ricercatori per prepararsi ad entrare in questo mondo?

«I giovani sono diversi rispetto a come eravamo noi. Entravamo in laboratorio e non ci facevamo troppe domande. Le generazioni attuali cominciano fin da subito a essere molto stressate dal fatto che è difficile avere un percorso chiaro di carriera, dal fatto che si è costretti ad andare all’estero per avere essere più competitivi nell’attrarre finanziamenti. Bisogna fare le scelte giuste! Occorre essere fiduciosi, poi i risultati arrivano. È importante partire non troppo disillusi. Mai mollare perché questo lavoro è un privilegio. Una cosa è sicura: non ci si annoia». 

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