Di Stefania Spadoni, Sofia Segre Reinach e Alice Nebbia
EUGENIA CARFORA
Di Stefania Spadoni
Eugenia Carfora, Commendatore Ordine al Merito della Repubblica italiana (settembre 2012) per il suo impegno nella scuola, è la preside dell’istituto Morano, scuola costruita in una delle piazze di spaccio più grandi d’Europa: il Parco Verde di Caivano, a pochi chilometri da Napoli. Qui la preside ha una vera e propria missione: recuperare i ragazzi e dar loro, attraverso l’educazione a scuola, la speranza di un futuro diverso, proprio lì dove il destino più facile è quello di entrare tra le fila della camorra. Per riuscire nel suo intento è partita dalle fondamenta: al suo arrivo la scuola era un ammasso di aule vuote e sporche e di spazi occupati da famiglie abusive. Rendere agibile la scuola, cercare casa per casa i ragazzi, convincerli a venire alle lezioni, trasformarli in studenti, insegnar loro a pensare. Il lavoro è stato lungo e arduo, ma ha dato i suoi frutti, tant’è che oggi tutti parlano di questa scuola, prendendola ad esempio di legalità e possibilità.
Alcuni saggi dicono che fra 50 anni il mondo verrà gestito dalle donne, perché gli uomini governano, ma le donne cambiano il mondo. Lei è d’accordo?
«Il desiderio di cambiare il mondo non chiede permesso, non sceglie di nascere in un corpo maschile o femminile, scoppia dentro senza che tu possa frenarlo e quando arriva travolge tutto. La speranza è che questo desiderio scoppi in forma dilagante».
Abbiamo esempi di donne, come lei, che con la loro attività modificano i pensieri, muovono le comunità. Cosa la spinge a farlo?
«La vita è un dono unico e irripetibile e va vissuta con pienezza. Io la voglio vivere senza perdermi nulla e senza addormentarmi con l’incubo di non aver fatto abbastanza per chi necessita anche di un piccolo gesto per non perdersi. Ognuno di noi può essere un esempio, può essere incisivo e cambiare il proprio tempo, contribuendo a rendere eterna la bellezza della vita».
Donne che vanno oltre il proprio lavoro con il coraggio di cambiare. Secondo lei perché rimanete fatti isolati, perché non avete più spazio nella gestione della cosa pubblica?
«La rassegnazione alle ingiustizie sociali è il vero nemico del nostro tempo. Io non cedo alla rassegnazione. Voglio lottare senza se e senza ma. Voglio stimolare i miei ragazzi a pensare e a credere nella cultura quale vera forza di libertà. Voglio affrontare tutte le insidie pur di lesionare i muri dell’omertà. Sono convinta che la cosa pubblica sia già nelle mani di uomini e donne in trincea e che non mollano».
Che cosa dovrebbe fare lo Stato per aiutarla e far sì che, dopo di lei, la realtà che ha duramente costruito prosperi?
«Non sono molto fiduciosa nello Stato circa il preservare quanto fatto. Se lo Stato avesse voluto prendersi cura della scuola non avrebbe consentito tanto scempio. È anomalo che io abbia dovuto espormi così tanto per difendere una scuola dello Stato. Ho dato e sto dando me stessa per rendere questa scuola simbolo di legalità, bellezza e opportunità. Spero che possano essere i miei ragazzi a prendersi cura di ogni angolo, tramandando un po’ di storia della scuola, facendola diventare un museo vivente anche per i loro figli. Voglio sognare che mai più nessuno potrà eliminare la traccia di quanto fatto, vorrei che la scuola diventasse meta di visite guidate per i ragazzi di tutto il mondo, vorrei una Fondazione dove i tanti sostenitori, da ogni parte d’Italia, possano vigilare nel tempo sul patrimonio che con fatica si sta creando su un territorio fragile e inconsapevole del valore che la scuola rappresenta».
Cos’è per lei la bellezza?
«La vita è bellezza. La vita tutto muove e tutto colora e nessuno può fermarla. Per me tutto è bello, a cominciare da ogni mattina, quando il primo suono della campanella porta a me i ragazzi che mi guardano e dicono: “ciao Preside”».
Ha mai paura?
«La paura è umana, ma il desiderio di fare è più forte».
Cosa succede ai ragazzi quando escono dalla sua scuola che è una sorta di luogo protetto?
«La mia scuola non è un luogo protetto. È pura fonte di energia, un luogo dove ognuno può rinfrancarsi e prepararsi ad affrontare con maggiore consapevolezza le insidie e le tentazioni presenti in ogni angolo».
Mi racconta la difficoltà più grande che ha dovuto affrontare in questo percorso?
«Sfidare i colletti bianchi, sfidare i silenzi e le decisioni di uno Stato, non sempre amico, a fronte dei bisogni di un territorio martoriato e solo bisognoso di attenzioni, di atti dovuti. Non basterebbero libri per scrivere ciò che ho visto e ciò che ho patito, una per tutte: “da dove è uscita questa? Stavamo aspettando la chiusura di tutto perché qui è tutto inutile”. Confermo, però, che serve fare e fare presto, questo è il mio tempo e voglio viverlo».
C’è mai stato un momento in cui avrebbe voluto mollare tutto?
«No mai, solo scoramenti momentanei».
FABIOLA GIANOTTI
Di Sofia Segre Reinach
Fabiola Gianotti nasce nel 1960, a Roma. Figlia di un geologo e di una letterata, di origini rispettivamente piemontesi e siciliane, a 7 anni parte alla volta di Milano con la famiglia, per poi sviluppare la passione per la scienza che mai più l’avrebbe abbandonata. Dopo il diploma di liceo classico, intraprende gli studi di fisica all’università. Nel 1987 entra a far parte del Cern, l’organizzazione europea per la ricerca nucleare di Ginevra, partecipando e coordinando negli anni alcune delle sue più importanti ricerche, come l’esperimento Atlas. Tantissimi i riconoscimenti della sua brillante carriera, impossibili da sintetizzare. Indice del suo talento e della sua firma di prestigio come scienziata, il fatto che sia entrata di diritto nell’albo d’oro Forbes delle cento donne più potenti del mondo. Nel 2014 è nominata direttore generale del Cern di Ginevra, incarico che ricopre dal 1 gennaio 2016. Fabiola Gianotti entra così nella storia come prima donna a ricoprire questo ruolo davvero importante.
Alcuni grandi saggi dicono che fra 50 anni il mondo verrà gestito dalle donne, perché gli uomini governano, ma le donne cambiano il mondo. Lei è d’accordo?
«Non penso si possa generalizzare e la capacità di cambiare il mondo non è una questione di genere. Tuttavia viviamo in una società in cui molte professioni (inclusa la mia, la ricerca scientifica) sono dominate dagli uomini, e le donne per riuscire devono essere estremamente determinate e motivate. E questo forse dà loro una marcia in più».
Abbiamo degli esempi di donne che, come lei, con la loro attività modificano i pensieri, muovono le comunità. Cosa la spinge a farlo?
«Nel mio caso il motore originale è la passione per la ricerca scientifica, il desiderio di capire come funziona la Natura. Ma la scienza oggi è anche una colla che connette i popoli in un mondo sempre più fratturato, è universale e unificante. Universale perché si basa si fatti, e le leggi della Natura sono le stesse in Italia, Cina, Argentina e qualunque altro posto della terra. Unificante perché la sete di conoscenza e il desiderio di capire come funzionano le cose, sono aspirazioni che accomunano l’umanità. La scienza non ha passaporto, genere, partito politico. Ho la fortuna di svolgere le mie ricerche al CERN, che è un esempio brillantissimo di quello che può fare la scienza per avvicinare i popoli (al CERN lavorano circa 18.000 scienziati di tutto il mondo, più di 110 nazionalità)».
Donne che vanno oltre il proprio lavoro con il coraggio di cambiare. Secondo lei perché rimangono fatti isolati? Perché queste donne, lei e le altre, non hanno più spazio nella gestione della cosa pubblica?
«Non sono sicura che si tratti di casi isolati. Ci sono sempre più donne attive, e spesso con posizioni di grande responsabilità in professioni e ambiti (inclusi i governi dei Paesi europei) che fino a qualche decennio fa erano appannaggio puramente maschile. Ad esempio, oggi le ricercatrici in fisica sono circa il 20% del totale. C’è ancora moltissimo da fare per raggiungere la parità, ma c’è stato molto progresso negli ultimi anni e senz’altro non possiamo parlare di casi isolati». Un cordiale saluto
DANIELA DEGIOVANNI
Di Alice Nebbia
La Dottoressa Daniela Degiovanni ha ricevuto l’onorificenza dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana da parte del Presidente Sergio Mattarella nel 2017. Per lei, una vita spesa nella lotta contro l’amianto. Una battaglia combattuta al fianco della comunità di Casale Monferrato, iniziata negli anni 70, quando i primi pazienti affetti da mesotelioma pleurico hanno iniziato a rivolgersi all’oncologa manifestando i sintomi della malattia. Per la Dottoressa Degiovanni quei segnali sono stati i campanelli d’allarme di una patologia che ancora oggi genera troppa paura e troppe morti. Da parte sua non c’è stata alcuna esitazione: la cura, l’ascolto e l’assistenza ai bisogni di queste persone sarebbero diventati presto la sua missione. Grazie al suo impegno e a quello dei suoi preziosi collaboratori, a Casale Monferrato sono nati l’associazione Vitas, destinata ad assistere a domicilio malati tumorali e di mesotelioma e l’Hospice Mons. Zaccheo, il Centro per le Cure Palliative annesso all’Ospedale Santo Spirito.
Alcuni grandi saggi dicono che fra cinquant’anni il mondo verrà gestito dalle donne, perché gli uomini governano, ma le donne cambiano il mondo. Lei è d’accordo?
«Concordo sul fatto che molti uomini governano ma saranno le donne a cambiare il mondo. L’amore per la propria professione e il grande investimento che le donne fanno nelle relazioni umane e interpersonali le porta a realizzare piccole e grandi rivoluzioni».
Abbiamo degli esempi di donne, come Lei, che con la loro attività modificano i pensieri, muovono le comunità. Cosa la spinge a farlo?
«Sostanzialmente il sentirmi parte di una comunità che dovrebbe essere destinata a garantire i diritti di tutti. Inoltre, devo ammettere che questo senso di appartenenza a una comunità volta a tutelare i diritti, soprattutto dei più bisognosi, ha da sempre accompagnato e guidato il senso della mia professione e della mia vita».
Donne che vanno oltre il proprio lavoro con il coraggio di cambiare. Secondo Lei, perché rimangono fatti isolati? Perché queste donne, Lei e le altre, non hanno più spazio nella gestione della cosa pubblica?
«Credo restino fatti isolati perché la nostra professione richiede un grande sforzo dell’anima, più che del fisico. In maniera innata, noi donne siamo maggiormente predisposte all’ascolto, alla sofferenza e al bisogno dell’altro. E questo ci porta talvolta a sacrificare la nostra vita privata e, conseguentemente, ad avere meno spazio anche nella gestione della cosa pubblica».