Il valore dei sogni dentro il penitenziario. L’incontro con i reclusi

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La fantastica foto in evidenza è stata scattata da Nanni Fontana ed esposta in una mostra alla Triennale di Milano

Di Fiamma Colette Invernizzi

San Vittore ha il portone di legno. Un grosso portone di legno. Immobile. O meglio, intoccabile. Un portone di legno che dietro potrebbe starci un castello, una fortezza, un monastero o un palazzo incantato, anche. Uno di quei portoni che all’istante ti fanno sentire piccolo e soprattutto ti fanno sentire fuori. Fuori da quello che c’è al di là, fuori da una realtà e persino fuori da una possibilità. Quella di entrare. Tutto perché il portone di legno non ha nessuna maniglia. Non un pomello, non un batacchio, non una serratura. Figuriamoci. E se per caso ti ci appoggi non si muove di un millimetro, anzi, è come se facesse resistenza per tenerti fuori.

Sempre fuori. Per entrare a San Vittore ci vogliono i documenti, le licenze, i fogli firmati, gli elenchi, i documenti validi, gli zaini vuoti e i cellulari spenti. O un arresto, certo. Con quello i portoni si aprono subito, chiudendosi con un tonfo di quelli che probabilmente pesano come lividi sul cuore. Noi siamo entrati. Con i fogli, i documenti, i sorrisi e le storie. Senza cellulari. Senza arresti. Siamo entrati e abbiamo fatto lo stesso percorso di sempre. C’è un cancello all’inizio del primo corridoio e poi ce n’è uno alla fine. Chiavi all’inizio e chiavi alla fine. Serrature all’inizio e serrature alla fine. Poi c’è il centro del panottico, una specie di piazza coperta da una cupola affrescata, su cui insistono tutti i raggi. Ma chi ci crede che in una casa circondariale dove ci stanno le ombre della società – ci sia una cupola affrescata? Eppure è così. Rovinata, ma c’è. Acciaccata, come il viso di chi ha visto troppa tristezza. Blu, come il cielo che all’interno sembra essere qualcosa da dimenticare.

C’è un cancello all’inizio del secondo corridoio e poi ce n’è uno alla fine. Chiavi all’inizio e chiavi alla fine. Serrature all’inizio e serrature alla fine. Di nuovo. Poi ci sono le scale e in un angolo, sopra ad una finestra da cui si vede solo cemento, il dipinto di un’aquila che spicca il volo in un cielo rossastro. Poi altre chiavi, perché se cambi piano è come se cambiassi corridoio. Quindi altre serrature che scattano e grate che si trasformano in porte per poi tornare grate. La Nave è la Nave. Un po’ casa, un po’ ricordo dell’anno passato, un po’ tanto (tantissimo) il vuoto del sorriso di Ale che oggi occupa una sedia invisibile. L’ala in cui ci sediamo è addobbata come per quelle feste organizzate dalle anime ricche di buoni propositi e povere di mezzi.

Accogliente e calda anche se le sedie sono quelle rimaste senza ruote o senza imbottitura, non si alzano più o hanno i braccioli sghembi. Ma alla fine chi se ne importa, potremmo anche sederci per terra che saremmo felici lo stesso. La cosa paradossale è che sul muro di fondo della Navesesto raggio, quarto piano – c’è veramente dipinta la poppa di una nave. Con tanto di scia e baia sullo sfondo, con tanto di faro e gabbiani. E tramonto, pure. Un tramonto sbiadito che mi fa pensare che forse una mano di vernice a tutta quell’acqua e quel cielo si potrebbe anche dare. Come per la cupola al piano terra, buttata tra un cancello, una serratura e una grata. Poi penso che magari non ci sono i fondi, o non c’è nessuno che veramente ha voglia di entrare in una casa circondariale per ridipingere una parete con una barca finta e una baia finta. E penso che forse è anche un po’ colpa degli architetti, che delle carceri non si ricordano mai e non le ipotizzano nemmeno quando disegnano i piani urbani delle nuove città. E non li progettano perché non è «cool» progettare uno spazio per le ombre della società. Non è bello. 

Al pari di noi che stiamo fuori e non ci ricordiamo mai che c’è qualcuno che sta qui dentro per anni. Però a quel tramonto andrebbe dato un tocco di colore. Questo è sicuro. Giusto per riconoscere il valore dei sogni, non per altro. Giusto perché, se anche un tramonto inizia ad avere le crepe, allora anche i desideri possono andare in pezzi. Tanto più che, sopra all’ultimo raggio di sole, c’è una telecamera fissa puntata sul corridoio, che pare l’occhio del Grande Fratello, pronta a ricordarti che quel tramonto non ha un bel niente di reale. Nemmeno i colori, figuriamoci i gabbiani. Ma noi ci siamo e ci sono Oblò e Bulloni sui tavoli. Bulloni e Oblò nelle mani. Poi ci sono la timidezza e il timore, le emozioni e la sincerità, la vulnerabilità che si fa umana e l’umanità che si fa vulnerabile. Piacevolmente vulnerabile. Finalmente. Non posso scrivere quello che s’è detto lì dentro perché sarebbe come tradire un segreto che abbiamo condiviso tra noi. Non posso spiegarlo perché chi non c’era non può capire – o sono io che non ho voglia di spendere parole perché chi non c’era capisca davvero – e chi era presente ne ha un ricordo tanto personale che risulta molto più potente di qualsiasi mia parola.

Quello che so è che si è sprigionata una bellezza che vedo molto raramente nel mondo di fuori. In quella realtà che si infila in metropolitana sbuffando tutte le mattine, in quella delle competizioni meschine e delle ingiustizie. Nella Nave ho visto sorgere una Bellezza che ha la potenza dell’umanità intera, quando ha il coraggio di incontrarsi dopo un’ estenuante battaglia sul campo, per leccarsi le ferite e condividere le sfighe. Per riderne, anche. Per piangerne, pure. Per ricordare chi non ce l’ha fatta e per sostenersi nella speranza di un mondo migliore. Perché ogni volta che vedo esplodere questa Bellezza, questa umanità coraggiosa delle sue fragilità, allora mi dico che un mondo migliore è possibile.

Un mondo migliore in cui l’armonia dissonante non è un errore ma un’opportunità per ascoltare sempre qualcosa di nuovo. Allora, uscendo, ho ringraziato il portone di legno che, con la sua tenacia elettronica, ha saputo contenere e custodire tutto il coraggio, la potenza e la Bellezza di cui sono stata spettatrice.

San Vittore ha un portone di legno. Meno male.

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