Fragilità e opportunità a San Vittore. Oltre le sbarre

Autori:

Di Eleonora Prinelli e Francesca Filardi

FRAGILITÀ

Di Eleonora Prinelli

Due gruppi di persone riempiono il corridoio della Navedi San Vittore. Da un lato i detenuti del reparto, tutti uomini, dall’altra noi B.Livers, in netta maggioranza femminile

Dopo un’ora abbondante di riflessioni e di messa a nudo da entrambe le parti, un detenuto si alza in piedi e dice: «Ho notato che voi siete quasi tutte femmine, è interessante. Perché penso che le donne abbiano una maggiore capacità di mostrare le proprie fragilità e di aprirsi con le altre persone, rispetto agli uomini, che invece spesso si chiudono in se stessi». È nata così un’importante riflessione sull’uomo e sulla donna. Sulla capacità di guardarsi dentro e di riconoscere i propri stati d’animo, le proprie emozioni, ma anche sulla possibilità di comunicarle e trasmetterle al di fuori di noi stessi. 

I detenuti ci hanno raccontato di una bella iniziativa alla quale alcuni di loro hanno preso parte in carcere, al fine di osservarsi e parlarsi «dall’esterno». Si chiama Video Box. Ti metti davanti a una telecamera che ti sta riprendendo e guardi l’obiettivo, gli parli, gli racconti di te, di come ti senti, di cosa hai bisogno. O magari non racconti nulla, stai solo lì con te stesso e la telecamera. Il girato lo riguardi dopo una settimana assieme a un terapeuta che ti aiuta ad analizzare quello che stai vedendo, te stesso. Il processo si ripete per più settimane, allo scopo di andare in profondità e affrontare le proprie paure, i dolori, le colpe, le gioie e le speranze di una persona che è prima di tutto un essere umano, e non il proprio reato. Andare a fondo non è facile, non tutti riescono a portare a termine il percorso e molti non riescono proprio neanche a cominciarlo.

Foto: Ludovica Sagramoso Sacchetti

C’è tanto su cui lavorare, ma quel giorno io ho visto uomini in carcere aprirsi molto di più, rispetto a quelli che stanno là fuori e camminano in giacca e cravatta. Quel giorno a San Vittore ho visto uomini indifesi piangere e provare empatia, gioia e dolore assieme a noi. E ho visto le piccole e grandi donne del Bullone aiutarli a tirare fuori quel vissuto. Abbiamo teso loro la mano e con un sorriso li abbiamo invitati a fidarsi di noi, che eravamo lì per confrontarci e ascoltare, senza nessun pregiudizio, nessun preconcetto. Come ha detto Giada durante la riunione: «Io qui non vedo malati, volontari o carcerati. Io qui vedo solo persone». 

 In due ore piene di emozioni, risate e pianti non vi è stata alcuna differenza. Uomini e donne, adulti e ragazzi sono stati ugualmente colpiti dalla forza di questo incontro e ciascuno di loro ha condiviso quello che ha voluto e potuto, consapevole che affidava quelle parole, quei sorrisi, quelle lacrime, nelle mani di altre persone in totale assenza di giudizio. Quello che è successo là dentro, al terzo raggio di San Vittore, è stato non solo potente, ma illuminante. Le emozioni sono universali, sono di tutti. E noi quel giorno le abbiamo provate tutte. 

OPPORTUNITÀ

Di Francesca Filardi

Questa è la seconda volta che prendo parte alla Riunione di Relazione insieme agli operatori e ai detenuti del III raggio del carcere San Vittore di Milano. In questo reparto, denominato la Nave, oltre a scontare le loro pene, questi uomini si trovano ad affrontare anche quelle causate dalla dipendenza patologica da sostanze stupefacenti. Sono sottoposti, quindi, quotidianamente a una doppia cura: quella per i reati commessi e quella per guarire dalla tossicodipendenza.

Con piacere quest’anno non ritrovo più alcuni volti; mi auguro che siano altrove, in un posto libero da sbarre e oppressione, sia essa fisica che morale. Altri, invece, sono gli stessi e ci accolgono con un calore che ci fa percepire subito il loro piacere nell’averci lì. È assurdo come io mi senta a mio agio e in un luogo familiare. Forse proprio perché, l’atmosfera che si crea, non permette di fare differenze tra Noi e Voi. Siamo tutti contagiati dalla stessa emozionante energia che si respira, in quell’aria soffocante di quello spazio ristretto. 

Forse anche perché, oggi, io stessa sono diversa: mi trovo ancora qui, ma non più immobile ad assistere alla mia vita che mi scorre davanti come se fosse altro da me, con una propria natura e indipendenza. Mi trovo a fare i conti con me stessa, ma in un modo differente rispetto a prima: un modo non solo inquisitorio e critico, come un giudice nel tribunale della mia stessa vita, ma come un alleato e testimone delle mie naturali sofferenzedifficoltà e imperfezioni; e non con il ruolo di spettatore, ma di protagonista della mia vita, senza più dovermi nascondere dietro maschere e fingere nel teatro che è forse la società di oggi e che per molti aspetti non mi appartiene.

Foto: Ludovica Sagramoso Sacchetti

Dopo tantissima resistenza e fatica, sono riuscita finalmente a smascherarmie voglio imparare ad accettare e accogliere le mie emozioni, dando loro un posto accanto a me e non contro di me.

Vedo e riconosco la mia malattia, la mia più grande nemica e ci combatto ogni giorno, ma senza provare solo tanta rabbia e colpevolizzando me stessa e il mondo attorno a me. Voglio uscire da questa gabbia, con le mie mille paure e le difficoltà che sto incontrando nel dare spiegazioni al resto del mondoche invece è andato avanti.Perché la vita reale è là fuori, non nelle mura protettive di una cella o di una stanza di ospedale.

Ho capito che piangersi addosso, non affrontare i problemi e far finta che non ci siano, oppure rifugiarsi sempre dietro qualcosa o qualcuno, e cercare la via più semplice, sono le vere sbarre che ci poniamo.

È questa voglia di Flottare e combattere che vorrei oggi far arrivare a tutti quegli uomini e ragazzi. La forza e il coraggio per farlo sono dentro ognuno di noi, basta solo volerli vedere.

È così che non ci si accontentadi quel modo di essere che ci si costruisce e che ti dà solamente l’illusione di star bene, di essere onnipotente e non avere limiti e fragilità. Ma così facendo, l’asticella delle aspettative si alza, allontanandoti da tutto ciò che invece è reale ma che non accetti perché fa così tanto paura. Diventi vittima della tua malattia, del reato che hai commesso, di te stesso.

Proprio così, la malattia, la dipendenza e la reclusione assumono la stessa forma di una galera. Quella stessa condizione che ti isola da tutto e da tutti, obbligandoti a rimanere prigioniero di te stesso e dei tuoi pensieri, ti permette di imparare a conoscerti e a raggiungere la consapevolezza delle tue colpe e dipendenze e a capire dove vuoi andare, verso la libertà e la guarigione. In questo senso la sofferenza generata da entrambi questi percorsi, può essere a volte una possibilità, un’opportunità per apprezzarsi e dare un valore, oltre che un nome, alle proprie difficoltà e a ciò che ci sta intorno.

Trasformare cioè il dolorein un’occasione per rinascere e risaliredopo aver toccato il fondo.

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