“Grazie, ci avete dato coraggio e speranza” Racconti di guerra sulla «Nave Libertà»

Autori:

Di Michele Ferraro e Federico De Rosa

GRAZIE, CI AVETE DATO CORAGGIO E SPERANZA

Di Michele Ferraro

Cari Ragazzi,

l’incontro con voi è stato stupefacente, ci siamo sentiti parte di un’unica realtà che ci unisce e ci fa oltrepassare ogni limite doloroso. Siete venuti a darci un rinforzo molto potente, ci avete fatto ascoltare le vostre storie vere, autentiche ed emozionanti. Abbiamo visto la forza che avete, la voglia di vivere questa vita e di lottare senza mai arrendersi, quando tutto sembra perduto o tutto finito. Ci avete insegnato che bisogna rialzarsi quando si va al tappeto, tirare su la guardia guardando in faccia il proprio avversario e combattere con la forza del cuore dicendo: «ce la posso fare, mi sento in dovere di farcela!».

Nella mia vita ho avuto momenti di felicità, di tristezza, di rabbia e di rancore, anche di depressione. La mia infanzia in una terra difficile, la Sicilia, nonostante le sue bellezze, ma con problemi seri di sopravvivenza. La mia gioventù sempre pronta ad essere disponibile con il prossimo, poi il mio periodo migliore, la mia famiglia, la mia ex compagna e mia figlia: quando penso a loro il cuore comincia a battere più velocemente, oggi è la linfa che mi porta a credere che cambiare è possibile.

Foto: Ludovica Sagramoso Sacchetti

Purtroppo quelle belle immagini in un momento buio della mia vita, vengono offuscate dai miei errori, la mia famiglia si era allontanata da una persona che non era più la stessa. Poi una forte depressione, che mi ha portato a diventare dipendente dalla sostanza, come se quella potesse essere la soluzione dei problemi. Diciamolo, la droga illude, fornisce una visione distorta della realtà, genera un’enorme rabbia accompagnata dal rancore per il prossimo, la perdita di lucidità, nessun esame critico di se stessi, dei propri errori, anzi, era sempre colpa degli altri. Non riuscivo a vedermi neanche allo specchio, perché allo stesso tempo non mi allenavo più e quindi non riuscivo a guardarmi come una volta.

Oggi sono consapevole che l’errore più grosso è stato quello di non aver trovato il coraggio di affrontare il mio problema. Finalmente, grazie anche a voi, ci sono riuscito. Questo coraggio unito al sentimento dell’amore che accompagna la mia vita, mi porta a sperare di poter essere ancora utile per la mia famiglia e per il prossimo. Il credere porta ad avere la forza di andare avanti e affrontare i problemi. Le vicende di questi ragazzi mi hanno mostrato dei valori che non pensavo esistessero.

Penso che ci sia un credo che non ha bisogno di attestazione e non si avvale dei metodi scientifici. Credere è un istinto, un lampo, una visione, un qualcosa che ti arriva, un’induzione, senza riserve, senza porsi troppe domande anche quando tutto sembra andare in senso contrario. Si tratta di avere fiducia in se stessi e negli altri senza confini e limiti. Questa convinzione ti porta ad essere certo che ogni azione ha un senso, la vita ha un senso. Ad esempio, quando credi che il male possa essere nel quotidiano, come se tutto ciò fosse normale, questa sensazione ti porta a non credere, la fiducia è più forte di tutto e consolida la nostra convinzione di poter andare avanti. Forza e coraggio, un abbraccio.

RACCONTI DI GUERRA SULLA «NAVE LIBERTÀ»

Di Federico De Rosa

Oggi alla Navec’è un’aria strana. Un rumore ovattato di passi svelti, un viavai silenzioso che scandisce l’attesa per degli ospiti speciali. Tutto è stato preparato con cura per fare spazio a parole, ricordi, storie, lacrime e risate. Sembra il silenzio di un tempo sospeso. Sospeso tra la voglia di raccontare e la curiosità di sapere. Un punto di incontro immaginario, ma concreto e anche molto, in cui sta per avvenire una strana magia tra persone sconosciute che in comune hanno una vita difficile, per una malattia o per degli errori fatti, e tanta voglia di «farcela» e condividere i propri «racconti di guerra». Persone per cui la vita ha un senso diverso, in cui l’assenza – della libertà o della salute – è una costante con cui dover convivere e fare i conti. Senza starci troppo a pensare su. Perché è la vita e va affrontata così come viene.

Sento spesso parlare di mondi e di fragilità da persone che in realtà non ne sanno nulla. B.Livers e marinai, con la fragilità ci fanno i conti tutti i giorni, chi rinchiuso tra le quattro mura di una cella, e chi in un corpo malato a cui ha dichiarato guerra, senza (quasi mai) perdere la speranza. C’è un fattore comune che li fa entrare subito in risonanza: una capacità spontanea di comprendersi e compenetrarsi in modo profondo.  

Foto: Ludovica Sagramoso Sacchetti

Qualcuno è un po’ spaesato. Non i ragazzi del Bullone, certamente incuriositi dalla loro prima visita in un carcere. Spaesati sono i marinai, messi improvvisamente a nudo da un gruppetto di ragazzi con piercing e capelli colorati, capaci con uno sguardo di frantumare le loro certezze parlando di dolore, tormenti, sofferenza, morte, con quel disincanto che solo chi li ha visti da vicino può avere. «Ci hanno riportato con i piedi per terra», hanno scritto sul blog della Nave. I B.Livers lo hanno fatto con una naturalezza e una durezza straordinarie, fondendo storie di vita e di morte in un incontro di anime inimmaginabile per chi, come me, non conosceva l’energia, la sincerità disarmante, la profondità, l’ironia e la voglia di vivere di questi ragazzi, che riescono a trovare la bellezza anche dove di bello c’è poco o nulla, come in una malattia o nella detenzione.

I marinai sono stati al gioco e si sono messi a nudo. Certe cose gliele ho sentite dire per la prima volta, lasciando emergere la parte più intima (e nascosta) di sé, il proprio dolore, il proprio passato, da mettere finalmente in comune con chi può capire. La «chimica» è stata istantanea. Il dolore, per magia, si è trasformato in bellezza. La bellezza di un incontro, la bellezza di chi racconta e si racconta, la bellezza di chi andando via ha lasciato un’energia incredibile in un posto, San Vittore, dove giorno e notte si alternano stancamente in modo sempre uguale. Come ha detto Martina «ci sono incontri che lasciano un segno. Questo ha lasciato un sogno». Un sogno che tra le mura di un carcere, o nel letto di un ospedale vuol dire libertà.

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