Di Giulia Verbena
Lo 0,19% su centomila donne in etĂ compresa fra i 45 ed i 60 anni.
Novembre 2015, Villa Gordiani, Roma.
Mi sono detta: «Dai, un ultimo giro e rientri a casa»; ma il dolore già lo sentivo e mentre scrivo mi sembra di sentirlo anche adesso. Ho provato, ma a metà percorso ho ceduto e sono rientrata affannosamente a casa.
Trentacinque anni fa, nella pancia di mia mamma, l’ecografia riscontrĂ² una macchietta sul mio ovaio sinistro: cisti funzionale, ossia un follicolo ovarico impazzito. Ma una volta venuta al mondo, la situazione rientrĂ², apparentemente.
Dico così, perchè nel corso dei miei trentacinque anni l’iperestrogenismo mi ha sempre accompagnato; il mio ciclo mestruale era sempre doloroso, emorragico, e in ritardo.
All’etĂ di vent’anni, complice una cisti ovarica di 12 cm che improvvisamente apparve sull’ovaio sinistro (di nuovo!), decisi di affidarmi alla dottoressa Francesca Barillaro, e iniziai così i miei controlli periodici che fecero da storico per ciĂ² che accadde quel giorno di novembre di quattro anni fa.
Tornando a casa dalla mia passeggiata dunque, sentii una pesantezza sul basso addome, feci una doccia calda e il fastidio sembrĂ² attenuarsi.
Quella notte, il ciclo tornĂ², lento e leggero. Fu il mattino seguente che peggiorĂ²: un rubinetto aperto, una costante perdita di sangue, liquidissimo, incontrollato, alternato a grossi coaguli.
Chiamai mio padre (medico urologo) e gli raccontai dell’accaduto. Pensammo ad una gravidanza non andata a buon fine e mi consigliĂ² di andare in pronto soccorso. Dopo aver avvisato Francesca, mi recai al Policlinico Umberto I di Roma, dove, con ancora una forte emorragia, mi visitarono: nel frattempo, il sangue dall’utero era passato nell‘addome, generando oltre all’emorragia gìa presente, anche un‘emorragia interna.
Ricordo la confusione in quella stanza, le pinze, le garze, le mani, le sonde, le mie urla che invadevano il corridoio del Policlinico; il sanguinamento era troppo, tale da non permettere alla sonda di vedere nulla, in realtĂ non capivano che quello che vedevano non era solo sangue.
Seguì la prima notte di ricovero. Nonostante le flebo costantemente attaccate, la mia emorragia non sembrava diminuire.
La pesantezza sul basso ventre era sempre piĂ¹ intensa, una compressione costante che io scambiai per necessitĂ corporali.Mi alzai lentamente, presi l’asta con la flebo e mi diressi verso il bagno.
Uno, due, tre passi, dovetti fermarmi sentendomi svenire: non avevo fiato nemmeno per chiamare aiuto, mi accasciai sul primo letto disponibile.
Passarono tre giorni di scrupolosa, a dir loro, osservazione: nessuno in quel Policlinico capì dopo sei ecografie transvaginali, una risonanza con mdc, un’isteroscopia diagnostica, cosa stesse succedendo.
Mi dissero: «Ci vediamo dopo Natale», mi dimisero, l’emorragia sembrava cessata e tornai a casa devastata.
Tre giorni lì dentro mi erano sembrati come tre giorni di reclusione, torture e violenze sessuali. La realtà è che un intero Policlinico non si fece venire il dubbio che ad una giovane donna di trent’anni, servisse una biopsia, con una massa in addome di 5 centimetri. NESSUNO, tranne lei, Francesca, la mia dottoressa.
Mi lasciarono andare inserendomi nella lista operatoria di gennaio per l’asportazione del «mioma G0». Passai le vacanze di Natale sotto un’altra forte emorragia e ricontattammo il Policlinico per avvisare. Mi diedero un appuntamento per anticipare l’intervento, ma quando ci recammo in ospedale ci dissero che non c’erano posti letto disponibili.
Io, mamma e papĂ ci guardammo e, fra il sorpreso e il rabbioso, ce ne andammo via.
Francesca, che avendomi in cura da dieci anni aveva nasatoqualcosa che non le piaceva, mi indirizzĂ² verso un collega per fare una biopsia e successivamente, alla mia terza emorragia, eseguimmo una resezione.
Quando arrivĂ² il referto, erano tutti fra il sopreso e lo sconcertato, medici compresi: Sarcoma Stromale Endometriale, una cosa di una raritĂ estrema. Ăˆ molto piĂ¹ facile il concepimento di Maria Vergine, che beccarsi un tumore del genere alla mia etĂ ! Decidemmo che al Policlinico Umberto I non saremmo piĂ¹ tornati e ci rivolgemmo al Regina Elena di Roma, dove venni operata.
Ma facciamo un passo indietro.
All’etĂ di 27 anni, conobbi colui che divenne poi, mio marito.
Quando ci incontrammo il mio orologio biologico impazzì, la voglia irrefrenabile di avere un bambino diventĂ² il mio pensiero fisso. Per diversi motivi aspettammo, ed io cercai di placare quella gran voglia di maternitĂ .
Quando mio padre mi comunicĂ² il tipo di intervento che avrei dovuto fare, scagliai verso di lui la mia rabbia: «Mi hai rovinato la vita», gli dissi. ScoppiĂ² in lacrime, il primario, il Dott. Verbena, un uomo abituato a reggere carichi di stress allucinanti in sala operatoria. Io lo vidi farsi piccolissimo davanti a me, di caricarsi di tanti di quei sensi di colpa dei quali ancora non si è liberato, inconsapevole, invece, che senza di lui e senza mia madre, non sarei ciĂ² che sono oggi: una donna felice, felicemente realizzata e serena.
Passarono così due anni dal primo intervento, i controlli andavano bene e tutto sembrava un ricordo lontano, finchè allo scadere del secondo anno, la tac torace evidenziĂ² dei focolai polmonari.
Corremmo in Humanitas e venni affidata alla dottoressa Alexia Bertuzzi, oncologa.
Parlare di questa struttura e di questa donna, mi emoziona moltissimo.
Ho scritto questo articolo fino a questo punto, con le lacrime ad ogni capoverso e con l’emotivitĂ che sa di un passato ormai risolto, ma le mie lacrime da qui in poi, assumono un senso piĂ¹ profondo. Mi si aprirono due strade, quella medica e quella di vita.
Clinicamente, venne scoperto quanto il mio sarcoma derivasse dal mio forte iperestrogenismo.
Decidemmo quindi di rimuovere l’ovaio restante, quello destro, che in sei mesi dall’ultima tac era raddoppiato in diametro (con il primo intervento erano stati asportati utero, tube e ovaio sinistro), e di monitorare i focolai polmonari: decisione vincente.
Umanamente entrai in contatto con quelli che oggi sono fisicamente e spiritualmente i miei fratelli; parte di questo articolo lo dedico a loro, questa storia, queste strade, mi hanno condotto fino a voi che avete dato un senso concreto alla mia vita. A Stefano, Andrea, Alessandro, Elda, Stefania, Adriana, Elisa, Daniela, Antonio, Rita, Francesca, GRAZIE.
La malattia mi ha insegnato molto: ho imparato a dire «grazie», a dire «ti amo».
Quindi. GRAZIE, alla mia Francesca, che mi segue da 15 anni, con spirito medico e materno; è grazie a lei se il mio percorso clinico è stato un percorso fortunato.
GRAZIE e TI AMO lo voglio dire alla mia mamma, che avrebbe voluto prendersi tutto il mio dolore piuttosto che vedermi soffrire; e a mia sorella, per aver sofferto con me e non avermi mai lasciato la mano.
GRAZIE a mio marito, per essere rimasto al mio fianco: la malattia ci ha insegnato che l’amore non ha vincoli, limiti nè barriere. Lo portiamo dove c’è piu bisogno, dentro e fuori di noi.
Ho scritto questo articolo con un duplice scopo: in primis per spronarvi a fare prevenzione; in secondo luogo per infondervi un pĂ² di forza: non lasciatevi abbattere, chiedete aiuto e soprattutto lasciatevi aiutare. Io ho reagito così perchè ho formato un‘enorme rete di sicurezza necessaria per la mia ripresa psico-fisica.
Tantissime sono le lezioni che ho imparato da questa esperienza, troppe per un articolo solo.
In ultimo, ma non per importanza, GRAZIE alla mia psicologa, la dottoressa Debora Peruzzi, l’amica che tutti vorremmo, che nonostate la tempesta siede accanto a te su questa barca, e ti tiene ben salda per non farti annegare, aspettando che le correnti si calmino e la tempesta passi.
Lo 0,19% su centomila donne in etĂ compresa fra i 45 ed i 60 anni, ma io ne avevo solo 30, e non passa giorno, da quel giorno di novembre in cui la mia vita crollĂ², che io non sia felice per ogni passo fatto, ogni frase detta, ogni abbraccio ricevuto. Sono crollata, ma ho imparato quanto sia bello rialzarsi, ricostruirsi e tornare a camminare.
Sostieni la Fondazione, il tuo contributo ci permette di andare lontano sviluppando la ricostruzione, l’aggregazione e l’orgoglio comune insieme a un gruppo di ragazzi che hanno affrontato o stanno affrontando il percorso della malattia.