Immagine in evidenza: Daniele Cassioli al Vibram Connection Lab durante l’intervista del Bullone (Foto: Stefania Spadoni)
Di Giulia Porrino
«La forza necessaria per superare i nostri limiti è già dentro di noi, ma bisogna sempre esercitarsi a superarli», sono parole di Daniele Cassioli, classe 1986, cieco dalla nascita e campione paraolimpico di sci nautico. «Lo sport è stato uno strumento per sentirmi meno incompleto e avere la mia rivincita nei confronti del destino». Con lo sport Daniele trova qualcosa da raccontare, esperienze di cui parlare e andare fiero con i suoi coetanei. Un ragazzo speciale ma che, come tanti altri della sua età, deve crescere e imparare ad accettarsi così com’è. La sua è una storia comune a quella di tanti altri non vedenti, diventata un esempio per molti ragazzi, grazie allo sci alpino e successivamente allo sci nautico. Membro del Consiglio nazionale del Comitato Italiano Paralimpico (Cip), è in prima linea con la propria Onlus per aiutare e stimolare bambini non vedenti.
Qual è stato il tuo incontro con lo sport?
«I miei genitori hanno sempre voluto educarmi come un bambino normale. Ho cominciato con il nuoto, l’acqua mi dava protezione, non avevo paura di cadere. Dall’acqua sono passato a un corso di karate con mio fratello, ma la diversità con gli altri bambini si faceva sentire e non riuscivo a difendermi. È stato in questo momento che ho avuto l’occasione di andare a sciare in montagna insieme a tanti altri bambini non vedenti. Pieno di entusiasmo, ho iniziato a mettere gli sci ovunque: dal salone di casa alla montagna. Nel 1995 ho incontrato una signora che mi ha fatto conoscere un gruppo di ragazzi con disabilità che praticavano sci d’acqua sul lago di Como. Ci andai, capii subito che quello era il mio sport: un senso di libertà mi riempiva il cuore».
In un video affermi «quello che non avevo precedeva la persona che ero», che significato assume per te questa frase?
«Siamo ricchi di pregiudizi, cerchiamo una caratteristica per ricordarci di qualcuno. Daniele era il bambino che non vedeva, ora Daniele è il ragazzo che fa sci nautico. Viviamo in una società in cui le caratteristiche ti determinano più di quello che sei. Persiste però il pericolo di fare proprie queste etichette. Per me l’antidoto è stato lo sport: mi ha spinto continuamente a dimostrare che quello che avevo fatto fino ad allora, fosse meno rispetto a quello che potevo fare».
«La malattia spesso costituisce un’opportunità, non solo a livello materiale, ma un’opportunità di crescita nella vita»: cosa ne pensi?
«Tutto è un’opportunità nella vita, anche una pausa caffè. L’essere umano tira fuori il meglio di sé nella difficoltà. Prima di tutto è fondamentale prendere coscienza del problema che si ha, se non ci si vuole fare aiutare, nessuno potrà farlo. Successivamente entra in gioco la resilienza, situazioni e meccanismi che ti portano a vivere delle situazioni per cui si è quasi felici di avere una disabilità».
Quanto è importante fidarsi dell’altro per un non vedente?
«Senza la fiducia non faremmo tante cose. È necessario rendersi conto che la fiducia permette di conoscere veramente una persona, perché le dà la possibilità di esprimersi. Spesso pensiamo che confidare un problema a qualcuno sia una debolezza, invece è un grande segno di forza. Se ne parli, se piangi davanti a una persona, sei più forte. Quando c’è percezione di una difficoltà condivisa, il gruppo si unisce».
In Italia la cecità è vista ancora molto come un ostacolo difficile da superare, cosa è necessario fare, secondo te, per cambiare questa mentalità diffusa?
«Prima di tutto c’è una cultura di base che nel mondo della cecità non si è ancora stati in grado di trasmettere. Le associazioni rivolte ai non vedenti sono le prime ad essere in conflitto tra loro. Come popolo italiano facciamo fatica a considerare il bene comune. Personalmente spingo molto per fare praticare ai bambini non vedenti lo sport, perché permette di imparare a muoversi meglio. Tante volte i bambini imitano quello che fanno gli altri: per un cieco questo è difficile, di conseguenza risulta spesso più arretrato rispetto ai coetanei. Dovremmo cercare attraverso lo sport di esporre i bambini a più esperienze. Se riuscissimo a creare e diffondere una cultura positiva diffusa, sarebbe più facile anche per le famiglie comprendere e adottare gli strumenti per affrontare le disabilità».
Che ruolo ha la tecnologia nella vita dei giovani, oggi? Credi che sia al servizio della disabilità?
«Grazie alla tecnologia, i non vedenti possono fare cose che prima erano impensabili. Ad esempio, ci sono programmi per i cellulari che permettono di leggere il telefono. La tecnologia non può formarti del tutto, se viene utilizzata per condividere esperienze, è una cosa buona. Credo molto nella comunicazione, tramite le tecnologie ti assumi la responsabilità di un messaggio. Ad esempio, nelle scuole, i ragazzi usano spesso il cellulare: è necessario permettere che nei social ci siano soprattutto dei messaggi positivi».
Quale muro vorresti abbattere?
«Quello del pregiudizio, che da una parte è scontato, dall’altra è la chiave per abbattere qualsiasi muro. Dove c’è pregiudizio non c’è conoscenza, ma la conoscenza delle cose e delle persone è alla base delle azioni e dell’evoluzione umana».