Intervista a Pietro Giunti

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Di Oriana Gullone

Fa un lavoro «normale» da qualche anno, ne ha 25 quando riceve una diagnosi che dice che fare quel lavoro non sarà più possibile, troppo faticoso. Quindi si ferma. Fermarsi vuol dire dedicarsi alla sua passione più grande. Vive a Novara, ha un jack russel. Parla della malattia come di uno dei dettagli che fanno parte della sua storia.

Sembra la mia, di storia, ma è quella di Pietro Giunti, classe 1983, fiorentino. 

Io il villaggio turistico, lui la videoteca. Lui appassionato di cinema (nel suo ufficio le pigne di DVD e videocassette arrivano letteralmente al soffitto), io di teatro musicale. A Novara per caso, io per la scuola di regia, lui per il lavoro dei suoi. Il suo jack russel si chiama Jack Russel, il mio Marley. La sua diagnosi è di sclerosi multipla, la mia di miastenia gravis, inizialmente scambiata per sclerosi multipla: la visione doppia che ho avuto all’inizio è un sintomo comune alle due patologie, che ovviamente Pietro non ha avuto. Come nella migliore tradizione dei supereroi, è solo un piccolo particolare complementare a far incontrare/scontrare i protagonisti. In un’intervista di quattro anni fa a GQ dice: «La passione è il cinema, la sclerosi multipla è la libertà, la maschera da supereroe è la barba».

Pietro crea la pagina Beyond The Beard (ad oggi, 622.832 like), insieme ad altri tre barbuti (un musulmano di Cipro, un indiano induista, un brasiliano protestante), scrivendo di libertà, uguaglianza e pace (le sue tre parole), di cinema e anche di sclerosi multipla.

Mi accoglie (in videochiamata) in tenuta da casa: «Così se mi vedi dal vivo non posso essere peggio, non deludo. Tu che fai? Di cosa ti occupi?», chiede lui a me. Gli racconto dei punti in comune, ed è un continuo botta e risposta, una chiacchiera tra simili che si annusano. Trasformare il «non poter più fare questo» in «posso ancora fare quello», scontrarsi con tutti quegli effetti collaterali che si scontrano col lavoro, cercare altro e trovare occasioni incredibili, che senza la malattia non sarebbero mai arrivate.

«Ne parlo, della malattia, ma non è il mio biglietto da visita. Ne parlo perché è giusto “usare” la mia visibilità. Una cura ancora non c’è. Finché non è un problema di tutti, non si troverà mai. Per questa notorietà, avevo amici che mi “sgridavano” quando ne parlavo apertamente in pubblico, perché “metti in difficoltà le persone“. Io penso invece di metterti a tuo agio. Quando faccio gli streaming notturni (dormo poco), tantissimi da ogni parte del mondo mi parlano di cose anche private, si sentono liberi di essere se stessi. È un esperimento, magari mi metterò a fare radio prima o poi».

Jack continua ad interferire, è geloso del suo coinquilino, e qualche domanda si perde, tra un biscottino e l’altro.

«Ho iniziato a lavorare a 16 anni, sono stato fidanzato per 11… cercavo di adeguarmi a una vita “normale“. La malattia ha fatto suonare un campanello, come per dirmi che l’intervallo era finito. Da quel momento sapevo solo che oggi è il giorno più importante della mia vita. E domani sarebbe stato lo stesso. Ho iniziato a provare a fare tutto quello che mi passava per la testa, tenendo il cinema come costante, ad avvicinarmi a chi si avvicinava a me, ad essere me stesso al 100%. Non ho limiti. Nonostante la malattia me ne abbia dati tanti, sento di poter arrivare dappertutto, di avere la forza, mentale se non fisica, di continuare l’evoluzione. Mi fido solo dei numeri, e i numeri crescono. Mi seguono persone da ogni angolo del mondo (e hanno la mia faccia come foto profilo). È un po’ surreale, ma non mi sento a disagio. Forse lo ero di più quando ero uno qualunque. Ero spettatore del mondo, ora ci sono dentro e posso cambiarlo, anche solo un pochino».

Altro punto d’incontro: l’ironia. Pietro ha un sacco di patenti di guida, perché deve rinnovarla ogni due anni. Una la tiene sempre nel portafoglio, anche se è scaduta, per la «foto Isis», dove ha capelli e barba lunghi, sguardo torvo. Quando girava con un termos in valigia contenente le siringhe dei farmaci, più di una volta bloccato ai controlli di polizia, era complicato convincere gli agenti di non essere un terrorista, ma solo un paziente cronico.

Non riesco a fare a meno di chiedergli come stia adesso, fisicamente. La sclerosi è recidivante-remittente, nella maggior parte dei casi. I sintomi vanno e vengono, alternandosi a ricadute più o meno pesanti.

«Vengo da 7 anni e mezzo di interferone, che sono circa 3500 iniezioni. Ho cambiato farmaco da un mese perché le lesioni interne sono aumentate. È più potente e in pastiglie. Inspiegabilmente, ho poca resistenza, ma sono molto forte. Ho persino gli addominali, senza nessun allenamento. In ospedale mi dicono che l’attività cerebrale mi impedisce di ingrassare, smaltisce tutto. Dentro non sto messo bene come fuori, chi non mi conosce e scopre che soffro di sclerosi multipla, pensa a uno scherzo di cattivo gusto. Ma dentro ho di tutto, tra lesioni, orientamento, parestesie… trovare un equilibrio è un’utopia. Non sembrare da fuori “messo male” può essere un vantaggio come no, però è la dimostrazione che una porta sbarrata non vuol dire fermarsi. Il trucco è la costanza, con la testa arrivi dove vuoi, anche se magari il percorso non sarà lineare. È quello che cerco di trasmettere a chi parla con me. I paletti sono nella testa, non nella vita. Non c’è certezza di niente, devi far valere oggi, adesso è il miglior momento per cominciare quello che hai in testa».

Annuisco, senza far domande. Ho trovato un nuovo B.Liver. Conquisteremo il mondo.

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