Di Giovanni Covini
Forse all’inizio ero un sasso.
Sentivo la pioggia, il sole, il freddo, il caldo e nient’altro. Nessuna interazione. Non esisteva nulla oltre me. Quando non c’è nessun altro significa che siamo il tutto e quando siamo il tutto significa che siamo soli.
Anzi, alla fine quando sei tutto non ci sei nemmeno tu, che sei tu solo se c’è l’altro.
Poi devo aver sentito qualcosa. Forse un piede mi ha pestato, o una mano mi ha tirato nell’acqua per farmi rimbalzare lontano. Mi sono accorto dell’altro a partire dal dolore e dal fastidio. Immediatamente l’altro è qualcuno con cui devo dividere l’esistente. Ne vorrà anche per sé, agirà con una sua volontà, con una sua intelligenza informata alla sua mentalità e lo farà senza chiedere permesso, come se avesse i miei stessi diritti di stare al mondo.
Questo tipo di «altro» è l’altro popolo, l’altro partito, l’altra fede, l’altro sesso, l’altro orientamento. Un pericolo per me e per il tutto che sono. Dev’essere più o meno lì che ho iniziato a desiderare la morte dell’altro. Non per cattiveria e nemmeno con crudeltà. È che se l’altro non ci fosse, sarebbe tanto meglio. Se si potesse fare come ho in mente io, sarebbe un mondo perfetto. Ci sarei io e altri come me. Quelli che scelgo io. Mi sto solo difendendo, sono gli altri a essere entrati nel mio mondo senza chiedere permesso.
Poi sono stato un bambino che si picchiava con il compagno di classe e che ha detto, come altri milioni di bambini: «Ha cominciato lui». L’odio è stato il momento in cui ho scoperto l’esistenza dell’altro. Provengo da un istinto rettile che si fa ancora sentire forte dentro di me. Sto all’erta. Difendo, proteggo. E se qualcosa si muove nel buio attorno a me, sparo. Non sapevo dell’altro. Non mi avevano avvisato della sua esistenza. Che cosa avrei dovuto fare?
Un giorno ho visto una ragazza bellissima e me ne sono innamorato. Ho scoperto che l’altro aveva risorse che mi potevano interessare e ho deciso di prenderle. C’è qualcosa di male nel prendere dagli altri quello che ci serve? Avevo voglia di baciarla, di stringerla e l’ho fatto senza perdere tempo a capire se lo volesse anche lei. Come si caccia, si stupra. Come si stupra, si usa. Vivo prendendo quello che trovo attorno a me, per sopravvivere. Quindi sì: devo l’inizio delle mie relazioni al più franco egoismo.
Poi, in qualche altra vita devo aver perso un occhio. E ho scoperto che un occhio vede molto meno della metà di due. Ho sperimentato l’assenza della profondità, che non è proprietà di nessun occhio, ma è la magica e inspiegabile chimica dei due campi. Prima sentivo la presenza dell’altro, ora sento il suo sentire. Ora colgo la profondità data dall’interazione delle nostre percezioni e delle nostre idee. Sento che se voglio difendere questa verità che non è più mia, ma alla quale posso collaborare, devo difendere l’altro occhio, quello diverso dal mio che vede l’altro campo visivo, e che insieme al mio diventa una vera coscienza dello spazio attorno a noi. La profondità e quindi la prospettiva.
La strada per capire è cominciata con la paura che ha generato l’odio. L’odio mi ha detto dell’altro. È stato il mio primo passo. Un passo a cui sono grato perché condannarlo sarebbe stupido come condannare il primo passo di un bambino. Sapere di essere parte di un tutto e di non essere il tutto, sapere di appartenere anziché possedere, sapere di essere frazione di un tutto che è uno e che va insieme, è un percorso difficile, millimetrico e abissale.
Grazie ai nostri primi passi, quindi. Cammino in fila indiana rispettando chi mette il piede dove io sono già passato e seguendo le impronte di chi mi cammina davanti. Non sento di dover combattere l’odio, ma di doverlo riconoscere per quello che è. L’odio è l’amore da piccolo. Quando non hai capito, quando ancora non senti. Non è una colpa: è l’inizio della scoperta.
Buon cammino sempre.