Illustrazioni in evidenza di Max Ramezzana
Di Fiamma Colette Invernizzi
Odia, Lei. Non odia, Lui. O forse è Lui a odiare e Lei no. O magari è orgoglio, indignazione, diffidenza. O fame di verità, anche.
11 settembre 1971. I gruppi montuosi del Karakorum e dell’Himalaya abbracciano la regione del Ladakh con la chiarezza naturale di chi vive in compagnia di anime rispettose. L’altitudine di Leh, la capitale situata a 3500 metri sul livello del mare, si raggiunge a piedi, con i carri o a dorso di qualche animale addomesticato. L’America e l’Occidente sono lontani, e la guerra delle cose non è ancora esplosa. I ladakhi vivono di agricoltura e allevamento di sussistenza, godono del tempo libero in comunità e trasmettono il sapere con una lingua tibeto-birmana in cui non esistono i termini «disoccupazione» e «povertà». Sono felici. Oriana è tornata dal Vietnam e le sue parole bollenti sono già impresse tra le righe di Niente e così sia. Tiziano sta per trasferirsi a Singapore, per affacciarsi alla liberazione di Saigon. Lontani.
Odia, Lui. Non odia, Lei. O forse è Lei a odiare e Lui no. O magari è vergogna, rabbia, sospetto. O appetito di curiosità, anche.
11 settembre 2001. In Ladakh l’inondazione produttiva è ormai stagnante, con la maggior parte della popolazione che vive di elemosina, sommersa da strade asfaltate ed etichette rosse di bibite gassate, poster di film mai proiettati e caramelle dagli zuccheri finti. I ladakhi, pur possedendo molti più oggetti di prima, si definiscono i poveri del mondo. Sono infelici. Oriana è silenziosa da anni, le mani occupate in un romanzo, il corpo in un villino a due piani nell’Upper East Side di Manhattan. Tiziano è riflessivo da sempre, i pensieri nella meditazione, le membra in un viavai tra Asia e India, alla ricerca di profondi respiri. Lontani. Ma improvvisamente vicini. Vicinissimi. La prima Torre viene colpita alle 8:46, la seconda alle 9.03. Il cuore dell’America crolla. È guerra. Guerra di Lei che sente l’odore di morte aleggiare sul pianerottolo di casa. Guerra di Lui che la vede immediatamente come un’occasione di pace, di risveglio, di consapevolezza. Sto con Lui, io che in quel pomeriggio dell’11 settembre 2001 uscivo da scuola sognando una buona merenda e sentendomi esortare da mia sorella maggiore a tornare a casa di corsa perché la terza guerra mondiale era appena scoppiata. Avevo 10 anni. Sto con Lui, io che quel giorno ho pensato che avrei visto cambiare tutto e invece non è cambiato niente, se non il suo inesausto appello alla conoscenza e alla compassione, tramutato in un pugno di marines spediti tra gli altipiani persiani. Ma poi leggo, eccome se leggo. Allora sto con Lei, che dopo anni a masticare guerre e conflitti, ingiustizie e malvagità, sente il suo mondo in pericolo. Sto con Lei che scrive quello che pensa, che urla lo strazio dell’animo, pur sapendo che la sua rabbia e il suo orgoglio verranno scambiati per odio. Ma rabbia e orgoglio non sono odio. No. La rabbia e l’orgoglio vengono da un passato lontano, da uno studio annegato nei muscoli e nelle ossa, negli occhi e nei pensieri masticati con chi le guerre le ha vissute davvero. Poi c’è la storia, la Resistenza, il femminismo che non è quello bieco da pubblicità, ma quello vero che fa tanto arrabbiare se qualcosa non va come dovrebbe. Allora sto con Lei, perché non posso fare altrimenti, se penso a «quella Montagna che nonostante le scandalose ricchezze dei suoi padroni – come l’Arabia Saudita – vive ancora in una miseria da Medioevo, vegetando ancora nell’oscurantismo e nel puritanesimo d’una religione che sa produrre solo religione».
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Sto con Lei quando leggo di Nasrin Sotoudeh, la più famosa donna-avvocato di tutto l’Iran, condannata a 38 anni e 148 frustate per essere sempre in prima linea a difendere i diritti civili e delle donne del suo Paese; quando conosco il racconto yemenita di Nujood Ali, una delle pochissime spose-bambine ad aver ottenuto un divorzio dopo essere stata data in moglie all’età di 10 anni; quando penso che in alcune aree del mondo le giovani debbano ancora chiedere il permesso a un uomo per sposarsi, vestirsi, guidare, andare in bicicletta, cantare o leggere. E non è odio, questo. È dispiacere, vergogna, ira. Ma non odio. Torno a studiare e sto con Lui, quando mi informo su ciò che è stato prima del famoso 11 settembre 2001: dal 1983 gli Stati Uniti hanno bombardato senza sosta Paesi come Libano, Libia, Iran e Iraq e «dal 1991 – dieci anni prima dell’attacco al World Trade Center – l’embargo imposto dagli USA all’Iraq di Saddam Hussein dopo la Guerra del Golfo ha fatto, secondo stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini, a causa della malnutrizione». Cinquantamila morti l’anno. Sto con Lui perché «se vogliamo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel suo insieme e non solo dal nostro punto di vista».
E qui vorrei fare una riflessione, che parla a chi sta dalla parte dell’America, a chi dalla parte del mondo islamico in quanto cultura millenaria, a chi si prodiga nella protezione della foresta amazzonica, a chi cambia uno smartphone all’anno, a chi compra vestiti perché costano poco, a chi – tenendo il mondo lontano – pensa di poter portare giudizio assoluto. Ascoltate chi odia. E non nel senso becero di seguire un pifferaio magico che ammalia orde di topi e pecore, ma nel senso colto di approfondire una curiosità. L’odio non nasce dal niente, non si sviluppa se non senza pensiero, senza tempo. L’odio è un sentimento e in quanto tale ha bisogno di spazio per crescere. Di alimentazione, di energia e di fatica. Dedizione. Motivazione. Chi odia va ascoltato. E non parlo dei subdoli haters, che tanto si manifestano dietro tastiere e schermi, dietro commenti cinici e malvagi, senza intelligenza e senza profondità. No. Loro restano degli imbecilli che seguono le emozioni che, al contrario dei sentimenti, sono rapide, limbiche e animali. Ce lo dice la scienza, che posiziona in un granello del nostro complesso sistema neuronale – l’amigdala – il centro ricettivo delle reazioni emotive. Un paio di centimetri quadri che risalgono alla notte dei tempi – in cui noi esseri umani eravamo pari a tutti gli altri esseri viventi presenti sul pianeta – dove si annida un’emozione prima di tutte: la paura.
Ecco svelato l’arcano, ci spaventiamo. Ogni volta che accade qualcosa che non ci aspettiamo, ogni momento che ci destabilizza, ogni situazione che non ci fa sentire a nostro agio, mettiamo in atto ciò che di più animale ci è rimasto addosso. Quindi scappiamo o attacchiamo. E gli haters non fanno nulla di più di questo: si spaventano e abbaiano. Avremmo potuto chiamarli scarers – coloro che spaventano o, meglio ancora, che si spaventano – ma a livello mediatico non avrebbe avuto lo stesso effetto. Odiano, Loro? No. Sono solo il risultato di esplosioni chimiche che non sono in grado di gestire e a cui non sanno dare un nome tra disprezzo, disgusto, disappunto, fastidio, rifiuto, ostilità, avversione, sofferenza, invidia, dolore, vergogna, imbarazzo, preoccupazione, ansia, angoscia, insicurezza, fragilità, gelosia e senso di abbandono. Per odiare bisogna vivere di queste emozioni per tempo, tanto tempo, nei soprusi e nelle ingiustizie, nelle ignoranze e nelle cattiverie. Bisogna coltivare le radici emotive e farci sorgere foreste, alimentandole di giorno in giorno con certezze sempre più folte, con convinzioni sempre più assolute, abissali.
Allora ascoltare chi odia diventa come ascoltare chi ama: una possibilità di affacciarsi ad un mondo labirintico e complesso, costruito poco a poco, poi consolidato e arricchito di ragioni e ampie motivazioni. Può essere pericoloso, certo, anche perché può essere altrettanto contagioso. Sto con Lui, quando dice che «con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola ideologia ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine (l’Occidente) che prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato – fatto di una civiltà materialista e sfruttatrice – era la versione integralista, fondamentalista e militante dell’Islam (…) in grado di generare gente che crede come noi stessi abbiamo saputo fare in passato ma non sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria vita per una causa giusta come una cosa santa». Perché creare degli idoli e delle ideologie, delle bestie di identità ha sempre funzionato, per fare le guerre. Lo sappiamo da tutti i libri di storia. Ma sto anche dalla parte di Lei, che condanna chi ha osato demolire i Buddha di Bamiyan, chi prende a martellate i reperti archeologici nei musei, chi fa saltare in aria Palmira senza rispetto di un passato culturale comune. Perché non avere cura dell’arte non è un semplice accanimento su un pezzo di marmo, ma un’interruzione del respiro del mondo.
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Poi però sto con Lui e con l’indignazione di sapere che la guerra afghana dal 2001 al 2017 (dato più recente) è costata ai Paesi che vi hanno partecipato all’incirca 900 miliardi di dollari, di cui quasi 7,5 tutti italiani. Quasi un milione al giorno, tutti i giorni. Ma non è odio, questo. No. È comprensione di una complessità, di una lettura globale che tiene con sé contraddizioni e strati di oscurità spiacevole. E sto con entrambi per dire che questo non è giusto ma è anche giusto, che se qualcuno facesse esplodere il mio, il nostro, David di Michelangelo, la nostra Torre Eiffel, il nostro Prado, il nostro Partenone, le nostre gallerie d’arte, le nostre biblioteche, la nostra Grande Muraglia, il nostro Monastero di Taktsang e con loro tutte le espressioni artistiche e umane del mondo, allora mi arrabbierei a morte e, con dedizione, potrei arrivare a odiare.
E sto con chi l’odio l’ha provato davvero, sentendosi derubato dell’umanità in qualsiasi campo di prigionia o di lavoro sparso sulla faccia terrestre. Sto con l’odio di chi è sottomesso a un dittatore tiranno, a un marito violento, a un lavoro di sfruttamento. Così come sto con l’amore di chi educa invece di insegnare, accompagna invece di imporre, accoglie invece di allontanare. Sto con tutte quelle persone che amano interrogarsi per capire prima di giudicare, quelle che non si sistemano in una casella predefinita all’interno di una società complessa, sto con le voci fuori dal coro che hanno la caparbietà di cantare contro corrente, con le anime che non semplificano solo per fare meno fatica, con chi studia, con chi non trova una risposta a tutto e con chi si prende la libertà di cambiare idea.
Sto con chi lascia spazio alle emozioni senza diventarne schiavo, con chi usa il cervello prima di parlare o di scrivere commenti online, con chi legge Oriana anche se sa di stare dalla parte di Tiziano e chi legge Tiziano pur sapendo di stare dalla parte di Oriana. Ma che comunque legge. Sto con l’onestà di Lei che chiude il suo pensiero così: «Stop. Quello che avevo da dire l’ho detto. La rabbia e l’orgoglio me l’hanno ordinato. La coscienza pulita e l’età me l’hanno consentito. Ora basta. Punto e basta». E sto con la genuinità di Lui che conclude con: «Dal punto di vista del futuro, questi sono ancora i giorni in cui è possibile fare qualcosa. Allora facciamolo. A volte ognuno per conto suo, a volte tutti assieme. Il cammino è lungo e spesso ancora tutto da inventare. Ma preferiamo quello dell’abbruttimento che ci sta dinanzi? O quello, più breve, dell’estinzione? Allora: Buon viaggio, sia fuori che dentro». Perché alla fine è così, siamo tutti un misto di bontà e nervoso, accettazione e scontro, affezione e astio, quiete e cattiveria.
Siamo tutti una miscellanea di componenti che si schierano talvolta da un lato, talvolta dall’altro, che si spostano velocemente, che ondeggiano nella corrente, prima di fermarsi e poi ripartire; un agglomerato di speranze e fallimenti che nel Ladakh che era, vediamo un tempo composto di piccole gioie a portata di mano, in cui non esisteva il tempo materiale per coltivare campi di povertà e di odio.