Di Lorenza Pinto
Non mi ero mai soffermata a guardare dove fossi, non volevo, non potevo: sì, ero lì ma non stava accadendo davvero a me, «a me queste cose non possono succedere».
Qualcosa però urlava fortissimo, mi diceva di aprire gli occhi: «guarda, guarda bene dove sei finita». Non mi dava pace, mi ribaltava lo stomaco, insisteva come se fosse troppo importante per essere ignorato.
Un brivido lungo la schiena, guardo ciò che vedevo tutti i giorni da mesi, ma non trovo nulla di familiare.
Mi sono fermata e ho voluto guardare.
Ho visto un posto con le luci fioche, i muri pallidi e intrinsi di paura. Un lungo corridoio, infinitamente lungo, che dava su alcune stanze. Tavoli e sedie coperte di cuscini perché troppo dure per sedercisi sopra. Letti in sucessione, odore di chiuso. Le finestre non si potevano aprire, troppo pericoloso. Sguardi persi chissà dove e figure che si trascinavano avanti, indietro e poi ancora avanti, instancabili ma distrutte. Ho visto donne nei corpi di bambine e bambine con sembianze di anziane, occhi infossati, pelle tirata. Ho sentito rumori, di monitor, di flebo, di nutrizioni terminate, rumori delle piantane che si muovevano appresso alle persone come animali da compagnia. Ma soprattutto ho sentito lamenti, pianti.
Ho sentito piangere, urlare, strappare, rompere. Urla che rimbombano nella stanza o che si fermano in gola, strozzate. Ho sentito odore di morte, di sconfitta, di scarto d’anima. Ho visto persone desiderose di liberarsi, di liberarsi da tutti quei fili, alzarsi con le proprie gambe e prendere il volo. E poi, ho visto persone cedere, cadere a terra stremate, ai piedi di questa battaglia. Ho visto corpi sottili, tremolanti, infreddoliti e avvolti in coperte in pieno luglio; labbra viola, dita raggrinzite, teste cariche di pensieri che non venivano più rette dal collo troppo sottile. Un giorno di maggio, poi, la morte è entrata senza bussare. L’ho vista. Era tremendamente vicina. Si è portata via un paio di occhi luminosi e dei lunghi capelli bruni. È volata via come un angelo, lasciando una scia di abbandono, vuoto, desolazione. Quel giorno ho pianto.
Ricordo visi pallidi e corpi esili che si trascinavano verso la riva, titubanti, labbra viola e serrate, occhi sbarrati, cerchiati, incavati, talvolta coperti da un alone… sembravano lacrime, ma la forza di piangere, non c’era.
La forza di ribellarsi a quella schiavitù, di riprendere a vivere, di prendere il dolore e combatterlo… a volte non la vedevo.
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«Ricordo che un tempo ero una persona di carattere. Ricordo di aver avuto una personalità forte e una vitalità invidiabile. Vivevo come se niente potesse distruggermi. E alla fine mi sono distrutta con le mie mani».
Quando realizzai tutto questo, tutto questo marasma di emozioni, caos, fili intrecciati tra luoghi, persone, volti… ebbi paura.
Paura di morire, paura di vivere, paura di esserci, esserci troppo, poco o per niente.
Sentii per la prima volta il rumore assordante del silenzio che ti implode dentro, sentii il peso della leggerezza, vidi l’oscenità della perfezione.
«Ho le mani legate – pensai, – è finita».
E invece no, era appena iniziata. Ero viva.
Forse per la prima volta dopo anni. Ero viva e consapevole. Potevo liberarmi. Le mani non erano davvero legate. Per la prima volta vidi ciò che c’era da vedere, smisi di negare l’evidenza. «Così si muore», mi ripetevo.
Ricordo che un giorno avvicinai la forchetta alla bocca, imitando altri pazienti dell’ospedale.
E da lì continuai a farlo, ancora, ancora e ancora.
Una sera poi, dalla mia stanza aprii gli occhi definitivamente: io ero dentro, la vita era fuori. Io ero legata a tutti quei fili… il sondino, la flebo, il monitor, il saturimetro e la vita mi chiamava fuori a volare.
Quella sera ho visto la luce, fioca, delicata e intensa allo stesso tempo.
Probabilmente quella che ho visto dalla finestra della mia stanza numero 01A era il riflesso della luce che avevo iniziato ad emanare.
È stata la scelta più difficile della mia vita, quella di vivere, quella di concedermi di vivere, di esistere, di esserci.
Ero convinta di dover giustificare la mia presenza e piuttosto di farlo, avevo deciso di non esserci più. Di non gravare su nessuno, di non essere un «peso».
L’11 gennaio 2019, dopo tre mesi, presi le mie cose e sorrisi, titubante e speranzosa allo stesso tempo.
Quel giorno cominciava la mia battaglia, immersa nella vita.
Penso che se non avessi provato, quel giorno, a mangiare quella briciola, oggi non sarei qui per raccontarlo.