Di Tino Fiammetta
Raccontano i nonni che al tempo del fascismo sui muri delle barberie e dei caffè campeggiava la scritta «Me ne frego», i bottegai più zelanti aggiungevano anche un perentorio «Qui non si parla di politica». Era una dittatura. Ovvio. Fregarsene era un obbligo. Un comandamento. Il Duce pensava a tutto. Decideva ogni cosa con modi spicci e poi violenti, tappando la bocca (con l’imbuto dell’olio di ricino) a oppositori, dubbiosi, critici e diffidenti. E la libertà? La partecipazione? La condivisione delle decisioni? Il dibattito? Roba nefasta e adatta a popoli adulti, e gli italiani – amava ribadire il Capo supremo – erano un «popolo bambino» che necessitava solo di una guida. Cioè Lui.
Sepolto (o ibernato) il Ventennio, quel «Me ne frego» continua a sonnecchiare in qualche testolina nostalgica. Le guerre, gli eccidi, la fame e la povertà che assilla tre quarti di pianeta è faccenda lontana, anche se miete vittime a due passi dalle nostre frontiere. Non ci sentiamo responsabili, né coinvolti, né titolati a intervenire. In qualunque modo. Continueremo a guardare distrattamente i reportage terribili del telegiornale mentre la mamma scalda la polenta e papà manda messaggi sull’iPhone. D’altra parte chi può sentirsi in grado di fermare il ditone di un presidente scapigliato che pigia su quel tasto rosso e invade l’Iran? Vero…Però…
Trent’anni dopo la seconda guerra mondiale, mentre le foreste (e i loro abitanti) del Vietnam venivano carbonizzate dal Napalm, milioni di giovani americani sfilavano per le strade per pretendere la fine di quella guerra maledetta. Altri milioni di manifestanti al grido di «I care» invocavano anche l’abolizione delle leggi razziali e una reale parità di genere (ricordate We want sex o Il diritto di contare…)
Quell’invito – «I care» – ricompare negli anni Sessanta, nella parete sbrecciata di una scuola di montagna, a Barbiana, e il suo artefice cercava di convincere i suoi alunni che bisognava sentirsi responsabili di tutto, occuparsi di tutto e interessarsi a tutto.
Ancor prima di prendere posizione, parteggiare o schierarsi, era necessario conoscere. E in un’epoca in cui non si insegnavano lingue straniere quel parroco di paese insegnava l’inglese – «che se non sapete l’inglese non capirete nulla…» – Perché un prete in odore di eresia faceva studiare ai suoi ragazzi, ogni giorno, i giornali quotidiani e una lingua veicolare? Semplicemente per capire e conoscere tutto quello che accadeva in ogni angolo del mondo. Perché? Perché tutto quello che accade a un tuo simile è come se accadesse a te, predicava Gandhi. Troppo clericale? Se non è il cuore a farci decidere può essere il portafoglio, perché gli effetti di una guerra o di una crisi dovunque nasce si faranno sentire prima o poi anche a casa nostra. Per esempio con i flussi migratori che si ingrossano o i dazi che pesano sui nostri beni di consumo o il prezzo della benzina che si impenna.
È la globalizzazione, bellezza. E ancora: come abbiamo vissuto dopo quel drammatico 11 settembre?
La paura si impadronisce di ognuno, sia che vada a messa, in aereo o su un bus a scuola. Terrore da importazione, non più guerra in una trincea lontana. «I care», quindi non fosse altro che per occuparsidi qualcuno lontano prima ancora di preoccuparsi per noi. E poi, la conoscenza è la diga invalicabile contro il fiume di notizie false, l’antidoto per non essere imbrogliati dai soliti azzeccagarbugli in giacca e cravatta. E dopo sarà il momento di stabilire da che parte stare.