Di Loredana Beatrici
Non mi è mai piaciuto giocare a Risiko e per me leggere quello che da anni accade in Medio Oriente ha lo stesso effetto di quando osservavo gli amici muovere carri armati su quel tabellone colorato, durante interminabili partite in cui alleanze e antagonismi cambiavano a ogni giro di dadi.
Questo purtroppo è quello che succede, da secoli, intorno a quella terra che un tempo fu la culla della nostra civiltà. La terra che alle elementari chiamavamo Mesopotamia e sulla quale abbiamo fantasticato, prendendo le parti degli Assiri o dei Babilonesi.
Riassumere le innumerevoli guerre che oggi sconvolgono la «polveriera mediorientale» è difficile. Prima di tutto perché non esistono fazioni chiare (ci sono esempi di guerre tra popoli che poi mutano in conflitti civili di tutti contro tutti). È difficile perché non esistono motivazioni chiare (ci sono guerre religiose che diventano lotte di potere, per sfociare in conflitti economici). Difficile perché non esistono mai vincitori e vinti (perché un lotto di terra guadagnato, viene poi, con un accordo, restituito e il giochetto non vale mai le perdite umane subite).
Proviamo comunque a riportare i fatti che nelle ultime settimane riempiono i giornali di tutto il mondo.
I FATTI
Sono circa le 00:30 della notte tra il 2 e il 3 Gennaio. Quasem Soleimani, generale iraniano, atterra a Baghdad, capitale dell’Iraq, con un volo proveniente dalla Siria. Insieme a lui c’è la sua scorta e Abu Mahdi al Muhandis, leader della milizia irachena sciita Hashed. Salgono a bordo di un Suv, che fa pochi metri, perché viene investito da missili sparati da un drone senza pilota. Nelle ore successive all’attacco non si comprende la dinamica e non si sa chi sia il soggetto eliminato, ma si capisce subito che si tratta di un obiettivo di valore. Le prime informazioni arrivano dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che posta su Twitter una bandiera americana e da Washington, che spiega i dettagli dell’attacco. Si comprende così che quella notte è destinata a rimanere nella storia, perché è stata uccisa una pedina importante della lotta sciita iraniana. Che la sua morte possa avere importanti conseguenze e ripercussioni Trump lo sa bene e, infatti, invia immediatamente 3.500 soldati in Medio Oriente, pronto a difendersi da attacchi e rappresaglie.
Ma chi era Quasem Soleimani? Il 62enne generale non era solo un pezzo da novanta delle milizie iraniane, ma a tutti gli effetti l’artefice della politica del suo Paese, riguardo ai dossier più importanti: dall’Iraq, alla Siria, al Libano, al confronto con Israele, allo scontro con gli Stati Uniti. Cresciuto in campagna, taciturno, solitario, schivo, già nel 1979 si era unito come volontario alle Guardie Rivoluzionarie islamiche (pasdaran), protagoniste di molti conflitti armati (tra cui quello in Iraq contro Saddam Hussein). Soleimani era anche il comandate delle brigate Al Quds, braccio armato del movimento per il Jihad islamico in Palestina, attivo nella lotta contro Israele. È stato sempre lui a coltivare i rapporti con l’Hezbollah («il Partito di Dio»), braccio armato degli sciiti libanesi. Per l’Intelligence saudita, insomma, era considerato il diavolo, il direttore del caos mediorientale. La sua morte è stata pianta da molti (sciiti e forze rivoluzionarie), ma anche vista dai moderati e dai sunniti, come la liberazione da un assassino.
La risposta iraniana non si è fatta attendere e, terminati i funerali del generale, il regime teocratico di Teheran (capitale dell’Iran) ha lanciato una trentina tra missili e razzi su due basi militari nell’Iraq occidentale, dove ci sono principalmente soldati americani.
Il mondo ha tremato, temendo lo scoppio della terza guerra mondiale. Ma è a questo punto che lo scontro si è spostato dalle basi militari ai social network, con tre comunicati, due su Twitter e uno su Telegram.
«La vendetta feroce è cominciata», scrivono le Guardie rivoluzionarie islamiche. Alcune ore dopo interviene Trump: «Va tutto bene. Dall’Iran sono stati lanciati dei missili su due basi militari in Iraq. […] Abbiamo di gran lunga l’apparato militare più potente e meglio equipaggiato del mondo». Trump non promette guerra e fiamme o ulteriori ripercussioni militari, rimangiandosi la minaccia, fatta poco prima, di colpire siti culturali dell’Iran. Il terzo comunicato è del Ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif: «L’Iran ha condotto e concluso alcune misure di autodifesa […] Non cerchiamo l’escalation né la guerra, ma ci difenderemo contro qualsiasi aggressione». Nessuno, insomma, vuole la guerra, i tre comunicati sono rassicuranti.
A far tremare questa apparente tranquillità, l’8 Gennaio, è l’abbattimento di un Boeing 737 ucraino, partito da Teheran e diretto in Canada. Dopo aver temuto che si trattasse di un atto terroristico, la versione ufficiale parla di «errore umano che ha portato gli operatori della contraerea iraniana a scambiare il velivolo per un cruise statunitense», errore che verrà condannato dalle autorità iraniane.
Fino a qui tutto bene! Ma perché Trump ha deciso di sferrare un attacco così pericoloso, rischiando di esacerbare animi già caldi?
PERCHÉ TRUMP HA AGITO COSI’?
«Abbiamo attaccato la scorsa notte per fermare una guerra, non per iniziarla». Così Donald Trump ha commentato la decisione di uccidere Soleimani, aggiungendo che il generale «stava progettando attacchi imminenti contro diplomatici e personale militare americano». Ammesso che fosse vero, ma al momento non sono state trovate prove, la decisione del Presidente americano ha lasciato tutti di stucco, soprattutto perché in questi anni ha più volte dimostrato di non voler arrivare, nonostante la sua fama di belligerante, a scontri armati in quell’area. Per esempio il 20 Giugno scorso l’America era pronta ad attaccare l’Iran a seguito dell’abbattimento di un drone statunitense, ma Trump ha cambiato idea all’ultimo minuto, annullando un bombardamento che avrebbe potuto portare a una rapida escalation di violenza.
Eppure l’antagonismo tra Iran e Stati Uniti, che, ironia delle sorte, hanno combattuto fianco a fianco contro l’ISIS, ha radici profonde. I rapporti sono, però, notevolmente peggiorati quando Donald Trump, nel maggio 2018, ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dallo storico «accordo sul nucleare», voluto e sudato nel 2015 dal suo predecessore Barak Obama. L’accordo era stato firmato, dopo lunghi ed estenuanti negoziati, tra Iran, Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina. Quella firma era stata considerata il primo passo verso il riavvicinamento di Teheran all’Occidente, dopo la Rivoluzione del 1979.
L’accordo si basava su uno scambio: l’Iran avrebbe ridotto la sua capacità di arricchire l’uranio, privandosi della possibilità di costruire la bomba nucleare; gli altri Stati firmatari avrebbero rinunciato alle sanzioni che pesavano sull’Iran. Favori pecuniari in cambio di garanzia di pace. Trump non è mai stato d’accordo con questo patto per diversi motivi. Prima di tutto non lo trovava economicamente vantaggioso per gli Stati Uniti. Riteneva poi che in questo modo l’Iran, senza la pressione delle sanzioni, avrebbe potuto arricchirsi e sviluppare un programma militare pericoloso. Non gli andava a genio anche che l’accordo non precludesse all’Iran la possibilità di appoggiare i gruppi armati terroristi. In ultimo, ma non meno importante, l’accordo non piaceva all’Arabia Saudita e a Israele, da sempre alleati degli Stati Uniti.
La decisione di Trump di uscire dall’accordo nascondeva la speranza di mettere in difficoltà economicamente l’Iran e arrivare a negoziare un nuovo accordo, ma al momento questo non è accaduto, anzi i rapporti tra USA e Iran sono peggiorati e hanno registrato un susseguirsi di «incidenti» nel 2019, come droni abbattuti, navi sequestrate o attaccate, etc. Altro dato allarmante è che l’Iran, dopo lo scioglimento dell’accordo, ha superato il limite di riserve di uranio arricchito, previste dall’intesa, tornando ad essere una minaccia nucleare.
CONFLITTO IDEOLOGICO
L’antagonismo USA-Iran non è l’unico a caratterizzare la polveriera mediorientale. Esistono decine di conflitti che potremmo provare ad analizzare attraverso tre livelli di lettura.
Al primo livello troviamo il CONFLITTO IDEOLOGICO, quello per cui si muovono le masse. Il principale antagonismo che affligge l’area è quello religioso tra SUNNITI e SCIITI, scissione interna all’islamismo. Tutto risale alla morte di Maometto, avvenuta nel 632 d.C. e per la quale scoppiò la questione della successione. La maggioranza (i sunniti) scelsero come successore Abu Bakr, suocero di Maometto. La minoranza (gli sciiti) voleva che il successore fosse un consanguineo come Ali, cugino e genero. Una scissione che da anni giustifica centinaia di morti e repressioni.
Oggi i sunniti sono circa l’80% degli islamici e dominano interi Paesi, come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e il Quatar. I Paesi a maggioranza sciita sono solo Iraq, Iran, Azerbaigian e Bahrein (anche in Libano, ma non è considerato un Paese islamico, la maggioranza è sciita). La faccenda si complica perché in alcuni Paesi sunniti la comunità sciita è molto forte e crea tensioni interne, se non vere e proprie guerre. Nello Yemen, per esempio, i ribelli sciiti rappresentano il 10% della popolazione. In Libia le forze sciite cercano appoggi religiosi per ribellarsi. In Afghanistan la repressione contro gli sciiti è forte perché i sunniti afghani interpretano il messaggio religioso in chiave fondamentalista (Talebani).
L’Iran è il riferimento per tutte queste rivolte sciite, motivo per cui viene visto con apprensione sia dal mondo occidentale che dal mondo arabo sunnita, anche perché l’Iran può contare sull’appoggio di gruppi armati, come quello di Assad in Siria, quello di Hamas, o ancora la Jihad islamica tra i palestinesi, gli hezbollah in Libano e milizie armate in Iraq e Afghanistan.
In nome quindi, concedetemi la banalizzazione, di una faida familiare tra suocero e genero, vengono ancora oggi messi uno contro l’altro interi popoli. Uso il verbo al passivo perché in realtà queste differenze di concezioni religiose non sono state, in principio, tali da giustificare dei conflitti armati. Tant’è che esistevano Stati sciiti governati da sunniti (es. Saddam Hussein in Iraq) e viceversa. Entrambe le parti professano, infatti, i 5 pilastri dell’Islam (la professione di fede, la preghiera, l’elemosina legale, il digiuno in Ramadam, il pellegrinaggio alla Mecca).
Quindi come si giustifica questo odio? Qualcuno diceva che la religione è l’oppio dei popoli e se si vuole muovere le masse occorre far leva sui sentimenti più nobili, sul senso di appartenenza. Ed è così che sunniti e sciiti divengono acerrimi nemici, tanto da giustificare la nascita di cellule estremiste, come Al-Qaeda e Isis.
Ma chi fa leva su questi sentimenti religiosi? Chi muove le masse?
CONFLITTO TERRITORIALE
Passiamo al secondo livello di lettura: il CONFLITTO TERRITORIALE.
Le masse vengono mosse dai capi di stato e dai generali che hanno desideri espansionistici. Perché (e qui il Risiko docet) più territorio hai, più popolazione controlli, più diventi forte anche nello scacchiere internazionale. Allora si spiega perché l’Arabia Saudita non vuole che l’Iran diventi una potenza.Il conflitto più emblematico, però, è quello tra ISRAELE e PALESTINA, che risale anch’esso a molti anni fa.
Nel Novembre 1947, considerata la necessità di trovare una terra ai migliaia di ebrei in fuga dalle persecuzioni, una risoluzione ONU con il consenso di USA e URSS, spartisce la Palestina in due stati: uno ebreo e l’altro palestinese. Nasce così nel 1948 lo Stato di Israele. Lo stato arabo-palestinese, invece, non fu mai costituito e il malcontento di tutti i popoli arabi per quello che viene visto come un sopruso da parte degli ebrei, sfociò in numerosi attacchi bellici e terroristici, che non sono ancora terminati. Israele, impegnata a rispondere agli attacchi, nel frattempo si è espansa, tagliando fuori 800.000 profughi arabo-palestinesi ed esacerbando il clima già teso. Risulta davvero difficile per noi occidentali capire perché non riescano a trovare un accordo, su un territorio così vasto, che possa renderli una grande potenza unita, piuttosto che continuare a vivere dilaniati dalle guerre. Anche qui sorge un interrogativo: perché?
CONFLITTO ECONOMICO
Eccoci arrivati al terzo livello di lettura: il CONFLITTO ECONOMICO.
C’è un motivo se queste guerre hanno assunto la portata che hanno oggi, diventando possibili micce di conflitti mondiali (cosa che, per esempio, non accade per le guerre in Cecenia, Daghestan, Nigeria, Somalia, Congo, Filippine, Myanmar, etc.): la ricchezza di risorse dell’area mediorientale. Gas naturale e giacimenti di petrolio rendono quest’area tra le più ricche naturalmente al mondo, ed è il motivo per il quale tutte le potenze economiche vogliono avere il controllo del territorio. Resource Curse (maledizione delle risorse), l’espressione coniata nel 1993 da Richard Auty per definire «gli effetti perversi che la ricchezza legata alle risorse naturali di un Paese ha sul benessere economico, politico e sociale», sostenendo la correlazione inversa fra l’abbondanza di risorse, in particolar modo minerali, e l’affermarsi di governi autoritari e l’insorgenza di conflitti. Se il Medio Oriente diventasse una grande potenza unita e stabile, diventerebbe un competitor economico troppo pericoloso per le altre potenze mondiali. Ecco, forse, i motivi delle continue ingerenze di Europa, America, Russia, mascherate da missioni di pace, alleanze, trattati e armistizi.
DIVIDE ET IMPERA
Aveva ragione Filippo il Macedone, quando disse: DIVIDE ET IMPERA. Sembra, quindi, che l’interesse di tutti sia mantenere il Medio Oriente un’area instabile e conflittuale, fomentando lotte ideologiche e di potere (senza considerare il consistente introito per l’industria delle armi). Mi permetto (e chiedo scusa) di concludere con una personalissima osservazione: forse l’unico antidoto possibile risiede in una rivoluzione culturale.
Sì, la cultura può salvare. L’informazione può salvare. Iniziare a pensarci tutti può salvare. Smetterla di lottare, cioè, in nome di un’identità di popolo o religiosa, iniziando a pensare, invece, che l’unica identità per cui valga la pena battersi è l’essere umano. Sì, forse questo può salvare. Basta, quindi, cercare delle differenze. Basta cercare dei motivi per scendere in piazza. Basta immolarsi per il suocero o il genero. Basta credere che il fine giustifichi i mezzi. Perché nel momento in cui aderiamo a un movimento che va contro ad un altro, siamo già pedine di un Risiko, siamo già pedine strumentalizzate.