Intervista a Viviana Mazza – giornalista inviata in Medio Oriente

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Di Eleonora Prinelli

Viviana Mazza è giornalista e inviata del Corriere della Sera, dove scrive per la redazione Esteri occupandosi soprattutto di Medio Oriente e Stati Uniti. È stata tra le prime a raccontare ai più giovani la storia del Premio Nobel per la pace Malala Yousafzai nel libro Storia di Malala

Ogni giorno ci sono sparatorie, attentati, droni bomba: è il nuovo modo di controllare il territorio. Perché in Medio Oriente continuano a imperversare forti tensioni? 

«I rapporti attuali tra i paesi del Medio Oriente hanno radici antiche, che nascono dalla loro lunga storia e dall’insieme di più aspetti: economici, politici e religiosi. La crisi tra l’Iran e gli Stati Uniti per esempio continua ormai da quarant’anni, dalla rivoluzione islamica del 1979. Donald Trump, con la strategia di “massima pressione” ha posto fine alle aperture del suo predecessore, Obama, e con le sanzioni economiche sostiene di poter costringere il Paese a rinunciare non solo al suo programma nucleare ma anche al programma missilistico e all’influenza nella regione. La linea tra guerra economica e conflitto militare, però, è sottile. Una delle cause di maggiore tensione nella regione è poi la rivalità tra l’Iran e l’Arabia Saudita, monarchia sunnita, alleata degli Stati Uniti. In Paesi come la Siria e lo Yemen, ci sono state guerre per procura che vedono le potenze regionali e quelle internazionali sfidarsi non in modo diretto ma indiretto. Va anche considerato il ruolo di Israele e quello di potenze come la Turchia. Tuttavia, è bene ricordare che i conflitti non avvengono solo in Medio Oriente ma anche in altri luoghi più lontani da noi, che godono di una minor risonanza nei media europei, ad esempio in Africa, America Centrale e Meridionale». 

Dati i recenti sviluppi, c’è una possibilità di distensione tra l’Iran e l’Occidente? 

«In passato vi sono state più possibilità di distensione, come quella rappresentata dall’accordo sul nucleare stipulato nel 2015 dall’Iran con i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, tra cui gli Stati Uniti di Obama, più la Germania e l’Unione Europea. Quell’intesa rappresentò un momento di grande apertura e dialogo nei confronti dell’Occidente. Trump è uscito dall’accordo nonostante l’Iran – secondo gli osservatori dell’ONU – stesse rispettando i patti. A seguito dell’uccisione del generale iraniano Soleimani in un raid statunitense a Baghdad, l’Iran ha risposto con un suo bombardamento in Iraq, poi ha dichiarato che non vuole un’escalation. Ma l’Iran ha anche annunciato di aver riattivato il programma nucleare, così l’Europa potrebbe portare all’introduzione delle sanzioni ONU. Le tensioni insomma restano forti. Gli iraniani si ricordano bene cosa voglia dire la guerra – l’hanno vissuta per otto anni contro l’Iraq dal 1980 all’88 – e non vogliono che la storia si ripeta. Ma a volte, come mi ha detto uno scrittore lo scorso gennaio a Teheran, sembra che la guerra si imponga sulle persone».

Perché le morti lontane sembrano contare di meno? 

«Perché vi si ripone un’attenzione diversa. Ci sembrano distanti, quasi irreali. Incredibilmente questo accade anche nei paesi dove avvengono le morti. Prendiamo come esempio il rapimento di 219 ragazze nel nord est della Nigeria operato dal gruppo terroristico Boko Haram: nel 2015 quando mi recai nel paese mi resi conto che ad Abuja, la capitale, la gente non conosceva i nomi delle ragazze rapite. Il nord, dove era avvenuto il rapimento, era visto come un luogo dove la violenza era diventata normale. Sono orgogliosa di aver contribuito ad un progetto lanciato da giornaliste nigeriane di documentare i nomi e le storie delle ragazze rapite».

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