Di Sandra Riva
La primavera del 2018 è stata diversa dalle altre. Diversa perché ho sperimentato qualcosa che fino ad allora non mi aveva mai interessata. I giornali della tv bombardavano con notizie e titoli scritti a caratteri cubitali: «emergenza immigrati». Mia madre, da sempre sensibile a temi sociali, non poteva ovviamente fare finta di niente. È una donna di cui ammiro la capacità di mettersi in gioco in prima persona contro le ingiustizie, con una attenzione premurosa per gli altri. Gli ultimi.
Io stessa sono stata una di quegli ultimi che si è portata a casa, ma questa è un’altra storia.
Mia madre è un’insegnate e negli ultimi anni della sua carriera, per superare alcuni pregiudizi che lei stessa sospettava di avere, ha deciso di trasferirsi in un CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione agli Adulti). Le avevano assegnato più corsi e, tra questi, uno rivolto a giovani migranti arrivati sui gommoni, di provenienza e culture diverse.
Era molto entusiasta e quando parlava di questa nuova esperienza soleva dire che per lei si era chiusa una porta e si era aperto un portone, tante erano le novità, gli stimoli e le nuove prospettive che in lei generava. Presto mi accorsi che non ero più figlia unica, la nostra casa era sempre aperta per accogliere, sostenere, aiutare questi ragazzi: la nostra famiglia si era allargata.
Anche mio padre, all’inizio restio, finì per coinvolgersi. Nelle sue notti di insonnia si dedicò alla sistemazione di una gran quantità di rottami salvati dalla discarica, e mise a punto una trentina di biciclette; un’altra ventina le recuperò attraverso un post su Facebook. Le biciclette erano molto importanti perché permettevano agli studenti profughi di raggiungere la scuola e di muoversi in autonomia.
Lamin, un ragazzo di 20 anni che frequentava il corso di mia madre, mi aveva colpito particolarmente per la gioia che manifestò nel ricevere la sua bicicletta. Aveva fatto una specie di balletto sollevando la bici e voleva sapere da mio padre i nomi di tutte le parti e come funzionavano gli ingranaggi. Spesso, alla domenica, facevamo gite in bicicletta e Lamin chiedeva gentilmente di unirsi a noi.
Il suo inserimento a casa nostra è avvenuto in modo naturale, come se ci fossimo frequentati da sempre.
La nostra casa era per lui una nuova tappa, dopo le tante che aveva affrontato da quando era partito appena dodicenne dal suo villaggio in Gambia.
Lamin era sempre sorridente, curioso, con una grande voglia di comunicare e apprendere.
Era arrivato analfabeta ma, in breve tempo, con tanto impegno e studio, era riuscito ad imparare a leggere e a scrivere.
Alla sera, quando ci faceva visita, facevamo giochi di società, oppure guardavamo in internet video relativi alla cultura del suo paese. Ho conosciuto cosi la storia del Gambia, il feroce dittatore che l’ha governato per anni, l’isola di Kunta Kinte, il kankouran e i riti di iniziazione, la musica, la natura e aspetti della vita materiale.
Era molto bello quando lui univa a queste visioni il racconto delle sue esperienze, anche perché lo faceva in modo simpatico e ironico.
Mia madre, che è anche arteterapeuta, una sera alla settimana lo faceva disegnare o lavorare con i materiali artistici. Lamin era molto entusiasta, diceva che queste attività lo aiutavano a liberarsi la testa. Mia madre era contenta che lui stesse riuscendo, pian piano, a rimettere insieme i pezzi della sua vita perché avrebbe potuto trovare un senso e affrontare con più serenità il futuro.
É stato bello festeggiare il suo compleanno e leggere nei suoi occhi la sorpresa e la gratitudine nel ricevere dei regali (una scatola di colori, le scarpe per correre) forse i primi della sua vita.
Grazie a lui abbiamo conosciuto Sona Jobarteh, una musicista gambiana suonatrice di kora. Quando ascoltavamo le sue canzoni Lamin si commuoveva ripensando al suo paese e ci raccontava che le parole di queste melodie l’avevano aiutato ed «educato», non aveva mai avuto una vera famiglia. Figlio reietto dal padre, non aveva potuto frequentare la scuola ed aveva passato l’infanzia ad accudire gli animali e a svolgere lavori agricoli per la sussistenza della famiglia. Poi, a tredici anni, era salito sul primo autobus diretto alla capitale e lì, sperduto e piagnucolante, era stato accolto a casa di una signora che aveva già cinque figli, che gli aveva dato ospitalità e la possibilità di lavorare (un vero miracolo africano).
Un giorno, ci balenò un’idea. Una veloce ricerca su internet ci permise di scoprire che, di lì a un mese, Sona Jobarteh avrebbe fatto tappa a Mestre per un concerto. Ci sembrava incredibile, perché non aveva mai tenuto concerti in Italia.
Andammo al concerto e il giorno successivo visitammo Venezia. Ricordo ancora la sua gioia e incredulità: gli sembrava di sognare!
Mia madre riuscì anche a trovargli un lavoro in una ditta che produceva puzzle e Lamin ci sorprendeva parlando della Primavera di Botticelli, della Gioconda o della Pietá di Michelangelo: immagini che memorizzava mentre lavorava.
All’inizio di ottobre Lamin decise di iscriversi al corso serale di scuola media. In quei giorni aveva ricevuto la conferma che aspettava con ansia: gli era stato conferito lo status di rifugiato per cinque anni e quindi poteva vivere in Italia a pieno diritto. Una notizia di questo tipo è il sogno di tutti i migranti, ma ha in sé qualcosa di insidioso. Da quel momento non è più possibile rimanere nel circuito dell’accoglienza e nel giro di qualche giorno, che si abbia o meno un lavoro e una casa, bisogna andarsene.
Per Lamin, come per tutti i profughi e in modo particolare per chi è di colore, trovare casa è un’impresa titanica. Ci sono molti pregiudizi e spesso i proprietari sono restii ad affittare.
Ricordo bene la cena in cui mia madre propose a me e a mio padre di ospitarlo.
Lo fece d’emblée, in modo diretto come fa sempre lei, senza tanti giri di parole. Io e mio padre ci scambiammo un’occhiata, la sua richiesta ci coglieva di sorpresa, ma in effetti non trovavamo alcuna ragione per dire di no.
Fu così che Lamin entrò in casa nostra. Arrivò nel pomeriggio, con il suo zainetto pieno di poche cose e tante speranze. Era dubbioso nell’accettare l’offerta, ma evidentemente non aveva altre soluzioni.
Ricordo che, improvvisamente, avevo avuto la percezione che i miei spazi venissero invasi: Lamin era una persona che aveva già frequentato la mia casa, ma mi resi conto della differenza tra una frequentazione saltuaria e una convivenza. Di fatto, sentivo che c’era un estraneo in casa. Temevo di essere limitata nella mia libertà di azione e di espressione. Però Lamin, con il suo fare discreto e la sua capacità di comunicare, mi permise di superare ogni resistenza.
Nel giro di breve tempo, dopo che ebbe iniziato la scuola, ci rendemmo conto di quanto una vera integrazione richieda tempo e pazienza.
Certi gesti, che nella nostra cultura hanno un determinato significato, possono essere letti in maniera diversa da chi appartiene ad un’altra. Mi spiego con un esempio: Lamin tornava da scuola tardi, più o meno alle ventidue e noi lo aspettavamo per cenare insieme. Ci sembrava infatti un bel gesto condividere questo momento della giornata. Ci rendemmo conto che, per lui, invece, era una forma di costrizione che non riusciva a capire, lo infastidiva dover rispettare un orario di rientro.
A tavola si parlava di noi e delle nostre giornate, lo invitavamo a raccontarci la sua. Per noi era una forma di attenzione nei suoi confronti, viceversa, per lui le nostre domande denotavano un desiderio di intromissione nella sua vita. Dimostrava di ricercare i legami e di apprezzare la relazione con noi, e d’altra parte li sentiva come una limitazione alla sua libertà. Se facevamo qualche progetto, capitava che all’ultimo momento non si presentasse senza alcun preavviso. Ci siamo resi conto che per gli africani la dimensione del tempo è molto diversa dalla nostra e lui in particolare, cresciuto senza famiglia, aveva bisogno di sentirsi libero e indipendente.
Dopo un paio di mesi mia madre riuscì a trovare una casa dove poté andare a vivere con altri tre ragazzi. Il nostro rapporto con Lamin, però, si è mantenuto e abbiamo avuto occasione di riflettere e anche di ridere insieme ripensando a quel periodo di convivenza. Per tutti noi è stata un’esperienza arricchente sia sul piano umano che culturale, ci ha aiutati ad approfondire ed ampliare i nostri punti di vista. Penso che, nella convivenza, emergano facilmente le differenze personali e culturali che generano incomprensioni. Questa esperienza ci ha reso consapevoli che l’integrazione necessita dei suoi tempi e va coltivata con pazienza anche quando, come nel nostro caso, esistono motivazioni ideali all’apertura verso l’altro e in tutti i soggetti coinvolti esiste una tensione positiva e un desiderio di incontrarsi e conoscersi.