Incontro con il regista Giovanni Covini. Autentico e vero sono sinonimi?
Di Martina Dimastromatteo
Autentico e vero sono sinonimi? Cosa significa, nel concreto, essere autentici?
Qualche settimana fa ho incontrato il regista Giovanni Covini e insieme abbiamo cercato di capire se l’autenticità ha davvero a che fare con la verità delle cose che diciamo. Partendo dal monologo sanremese di Rula Jebreal, ci siamo interrogati innanzitutto sull’atto in sé del raccontarsi. Quando una cosa è personale? Quando è privata?
Immediatamente entra in gioco la zona del pudore e di colpo ci si trova su un crinale molto delicato.
«Il pudore è una cosa che si colloca all’incrocio della nostra relazione col resto del mondo, tra la nostra zona intima e la zona sociale. Il pudore è uno dei regolatori di questa relazione. Tra un attimo di autenticità e un attimo di esibizionismo, il passo è labile», dice Giovanni. Bisogna tenere costantemente presente che il contesto dà sempre senso al contenuto di ciò che stiamo dicendo. Rula ha sicuramente portato un tema importante, profondo e più che mai necessario, ma viene da chiedersi se sollevare una questione così importante, senza che ci sia davvero la possibilità e lo spazio perché questa venga assorbita, elaborata, sia veramente sollevare un problema.
Questa parentesi, dunque, è stata funzionale al messaggio?
«Ma soprattutto, qual era il messaggio che voleva trasmettere? Cosa voleva fare, veramente? Bisogna capire se c’è il contesto perché una cosa venga detta. Una verità, se è davvero tale, ha bisogno che ci siano un tempo e un luogo corretti, che siano funzionali alla ricezione di tale verità», continua Covini. Quante volte ci è capitato di pensare o sentir dire: «Siccome ha detto una cosa vera e una cosa sua, allora quello era un momento di autenticità». Ma è davvero così? No, o meglio, non è detto… «L’autenticità non è una qualità del dire. Non è che se io ti racconto qualcosa che mi ha veramente colpito, quello a cui assisti è un momento di autenticità. L’autenticità è una qualità del sentire: la vera intenzione per cui io ti dico questa cosa sta nel cosa vuoi dall’altro, nel momento in cui ti esponi. Che cosa senti? Questo sentire è la cosa più difficile da contattare, non solamente negli altri, ma anche in noi stessi. In questo, la morale e la mentalità comune sono due grandissimi avversari, perché rispetto a molte cose che sentiamo, non abbiamo una struttura morale che le sappia accogliere. Molte delle cose che sentiamo sono sconce, criminali. Quando qualcosa è troppo, faccio finta di non sentirlo e lo veicolo su un’azione che è politicamente ripulita all’esterno, come ad esempio può essere fare un monologo su qualcosa che mi è capitato».
Ecco che dovremmo iniziare a chiederci non «Cosa hai detto?», «Cosa hai fatto?», bensì: «Qual era il sentire che stava sotto a ciò che hai detto e fatto?». Tuttavia, riuscire a mettersi così in contatto con se stessi, è spesso impossibile e pericoloso, perché, anche nel momento in cui riuscissimo davvero a capire cosa ci smuove, non riusciremmo a non giudicarci. «Come spiega bene Vito Mancuso, la verità non è qualcosa di esattamente accaduto che io esattamente ti dico, bensì è qualcosa di più grande di noi che ci comprende. Nel momento in cui dico una cosa vera, ma la dico in un tempo e in un luogo che non sono favorevoli, la vera intenzione che ho è colpirti. La verità a cui appartengo, non è una verità di cui decido, è una verità che posso decidere se cercare di comprendere, ma fondamentalmente è lei che comprende me. Perciò, anche se dico una cosa vera, non è detto che la dica alla luce di una verità più grande, che è quella che ci rende esseri umani in relazione tra loro. Per questo alcune omissioni, alcuni silenzi in realtà proteggono la verità. Il non dire ha un livello di verità più ampio del dire. È possibile, dunque, che dicendo una cosa che ha una sua esattezza, io possa ferire una certa persona, dicendo una cosa di per sé vera, rischio di andare contro a una verità più grande, ovvero la relazione con quella persona».
Ecco che la verità diventa un’arma a doppio taglio e ti viene da pensare a come si muovano, queste dinamiche, quando di mezzo c’è la malattia, personale o altrui.
Che faccio? Racconto quel che mi sta succedendo o meno? Se lo racconto, perché lo faccio? Se non lo racconto, verrò considerato un bugiardo? Perché non mi ha detto cosa gli stava accadendo? Non mi vuole bene? Non sono abbastanza fidato? Non mi considera un amico?
«Qual è la verità di fondo quando tu nascondi un elemento della malattia? Ciò che conta è sempre l’intenzione di fondo, che a volte non si conosce, che non andiamo a interrogare. Le persone con cui abbiamo bevuto meno bicchieri di vino siamo noi stesse. Quando io verrò a sapere di qualcosa che riguarda la tua salute e che tu mi hai tenuto nascosto, io coglierò l’intenzione che avevi nell’avermelo nascosto». Quel che conta, sempre, è il rapporto con l’altro. L’autenticità, nel bene o nel male, ha sempre a che fare con la relazione, con se stessi e con gli altri.
«L’autenticità non è per forza il grado ultimo della verità, quello non lo conosci mai. L’autenticità che puoi avere è “un grado”: è quello che in questo momento sei in grado di comprendere di quello che ti si muove dentro. È davvero quello che ti si muove dentro? Assolutamente no, ma è quello che di meglio riesci a capire. Quando parliamo di autenticità dobbiamo immaginarci una grandissima scala sulla quale noi siamo in cammino, a un livello molto approssimativo e amatoriale».
Portare dei messaggi, dunque, è giusto o sbagliato? Parlare di qualcosa di personale è giusto o sbagliato? Raccontarsi è giusto o sbagliato?
«La morale ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato. La legge ci dice cosa è lecito e cosa non lo è. Ma nessuna delle due ci dice cosa è vero. Perché? Perché questa è una legge del cuore, che ognuno ha dentro di sé. Tu cosa senti? L’unica cosa che puoi fare è domandartelo con sincerità e senza sconti. Perché stai facendo questa cosa? Puoi dire che oggi questa è la tua risposta. Può essere che domani tu riesca a capire che alcune cose le avevi fatte per un’altra ragione, ma oggi non sei in grado. Se non sei in grado, la tua risposta autentica è questa, sapendo che è la risposta di oggi. Il problema sta nel rinunciare a darsi una risposta alla domanda: questa cosa è giusta o sbagliata? Bisognerebbe invece chiedersi: tu cosa senti quando fai quella cosa? Questa è una domanda molto più centrale».
Ecco che allora, raccontare qualcosa di sé, esprimere un’opinione, confrontarsi con l’altro, equivale a portare il proprio punto di vista, qui e ora. «L’unica verità di cui possiamo parlare è il confronto dell’autenticità dei nostri punti di vista».
Affrontare il dolore con Shakespeare
Di Anna Cosentini
La prima volta che mi è stato chiesto come mai momentaneamente non potessi andare a scuola, mi sono pietrificata. Sbam. È stato come andare a sbattere contro un muro.
E ora cosa faccio? Cosa dico? Come faccio a dire che sto male, se in fondo non ho un’influenza, una malattia congenita e nemmeno una gastrite? Come faccio a parlare del mio dolore?
Io ho paura di raccontarlo. Le persone non lo capiscono, non lo comprendono, non se lo spiegano.
E poi io non voglio parlare del mio dolore. Perché è mio e raccontarlo sarebbe come rivelare il mio segreto, togliere la mia maschera: mi sentirei esposta al mondo, con le mie debolezze, le mie fragilità e le mie insicurezze. No, sarei troppo vulnerabile. Sarebbe come aggiungere dolore su dolore.
E così, per rispondere a quella domanda, ho inventato scuse, bugie, storie improbabili per evitare di palesare come stavo realmente e che cosa mi passava davvero per la testa. Per tanto tempo non ho parlato del mio dolore con nessuno, probabilmente nemmeno con me stessa. In fondo io sapevo di star male, ma non sapevo come definirlo, il mio dolore. Non mi ero fatta male con le forbici mentre tagliavo un foglio di carta, non avevo male allo stomaco. Io avevo semplicemente male, tanto male.
Poi un giorno ho deciso di scoprire le mie fragilità. Ho avuto il coraggio di dire: «non sto bene».
Ho avuto paura che gli altri non potessero capire, ma forse la prima a non capirmi ero io.
Ho realizzato che Shakespeare in fondo aveva ragione quando scriveva «Sfoga il dolore tuo con la parola: un dolore che non parla si rivolge contro il cuore troppo oppresso e lo spezza».
«Non sto bene». Sbam. Lo avevo detto davvero io? Quelle parole erano uscite davvero dalla mia bocca? Sì, sì, sì e ancora sì. Lo avevo detto: finalmente non era più necessario nascondersi dietro a una maschera.
Condividere. Dividere con. Che bella parola. Ho (con)diviso con gli altri il mio dolore e mi sono sentita capita, supportata, amata.
Una sensazione di sollievo mi ha pervasa: mi sono sentita leggera.