Di Marta Viola
Ho raccontato molte volte la mia storia. È diventata un libro. Ora un podcast. Partecipo a incontri di sensibilizzazione e presentazioni da due anni ormai. Eppure ogni volta uso parole diverse.
Ci sono considerazioni che sembrano evolversi continuamente.
La consapevolezza di oggi è un processo e appartiene a ciò che è accaduto finora.
Tralasciando tutto ciò che è successo nel mentre, perché sarebbe troppo lungo da sintetizzare, mi preme guardare con attenzione al punto di partenza e allo stato attuale delle cose.
Oggi, se guardo la Marta che quasi 4 anni fa si è ammalata, vedo una ragazza terrorizzata e pacata allo stesso tempo.
Sotto shock, senza dubbio.
Ero in un posto che mi ha lasciata senza fiato per la sua bellezza. Positano.
Ero con persone a cui voglio un bene infinito, diventati ormai fratelli e sorelle, anche se ci vediamo quando si può. I miei fotografi del cuore.
Stavo così male che pensavo di morire.
Quello che non sapevo è che stavo morendo davvero.
Dal pronto soccorso sono stata spostata in un ospedale più grande.
«Qui», mi hanno detto, «non possiamo curarti».
«Non posso lasciarti andare senza sapere che succede. Si tratta di una forma di leucemia».
In quel momento ho girato il volto verso il muro e ho stretto la mano di Elisa.
Non riuscivo a lasciarla. Se ci penso piango di nuovo.
Cercavo nella mia mente i significati connessi a questa parola. Non me ne veniva in mente nessuno, vuoto totale in quel momento. Solo un grande panico e la certezza che quelle facce serie intorno a me erano solo un piccolo indizio della gravità della situazione.
Pietro andò in missione a comprare un pigiama, uno spazzolino, delle pantofole e altre piccole cose necessarie.
I miei erano in viaggio per raggiungermi. Hanno ricevuto la telefonata e sono partiti. Mi sono sempre chiesta come è andato quel momento, cosa hanno provato.
Il rischio di emorragia interna era altissimo.
Sono venuta a conoscenza di questo dettaglio relativo alle mie condizioni iniziali, solo pochi mesi fa. Ognuno mi ha protetto come ha potuto.

Il pomeriggio di quel giorno, il 15 luglio 2016, abbiamo inaugurato un mostra fotografica. Uso la prima persona plurale anche se non ero lì, buffo no?
LAM – Leucemia Mieloide Acuta. Questa la mia diagnosi.
Una cosa che ricordo fin dall’inizio è l’accettazione. Non mi sono ribellata mai a quello che stavo vivendo. Ho cercato di accoglierlo dentro di me e fargli spazio. Ho accantonato tutto ciò che non mi serviva e ho steso un tappeto rosso alle nuove accortezze da utilizzare per avere a che fare con me, fisicamente ed emotivamente.
La prima che doveva imparare a fare questo ero io. Gli altri, fuori dalla protezione dell’ospedale, non hanno mai imparato a farlo per davvero. Nel frattempo sono passati mesi e le mie condizioni sono migliorate.
Il mio tumore era ovunque, il mio sangue lo aveva sparso in ogni centimetro del mio corpo. Non controllavo più nulla, la leucemia si stava prendendo tutto. Era più grande di me, anche questo l’ho capito subito.
Le persone parlano di battaglia quando pensano ai malati nel loro percorso. Probabilmente anche io in quel momento ho pensato a me in quei termini. Ma per come l’ho affrontata posso dire che non mi sono mai sentita potente. Anzi, ho visto per la prima volta e senza filtri tutta la mia vulnerabilità. E mi sono sentita amata, davvero tanto, da persone vicine e lontane.
Mi sono detta perciò, che avrei fatto tutto il possibile, tutto il mio massimo. E così ho fatto. Non era una scelta, mi è venuto d’istinto. La reazione che ho avuto al tumore, oggi la potrei riassumere così: mi sono sentita braccata.
Un animale selvatico sotto osservazione in laboratorio. Ero in gabbia, come potevo pensare di uscire? Non era quella la strada infatti. Dovevo restare. Aspettare. Respirare. Calmarmi. Accettare. Comprendere. Dovevo abbracciarmi, perché a un certo punto non poteva farlo nessun altro.
Ho fatto tutto questo ogni giorno e ogni notte. Per me è stata una resistenza silenziosa, composta da sorrisi e lacrime in maniera arbitraria. Non sapevo più chi ero e nemmeno se sarei stata di nuovo qualcuno.
Esisteva solo il presente. Oggi sono ancora viva. Oggi mi sono svegliata. Oggi ho avuto meno dolore di ieri.
Non c’era altro, e tutto era concentrato su di me. Da fuori gli incoraggiamenti erano così lontani e sbiaditi, rimbalzavano sulla mia bolla protettiva di solitudine.
Durante il terzo ricovero, che mi ha costretta 97 giorni in camera sterile senza alcun contatto, ho pensato che non sarei tornata a casa.
Ero pronta, qualsiasi cosa fosse accaduta.
Non è spavalderia, ma ipersensibilità e ascolto del proprio corpo. Ripresa lentissima con qualche scivolone, per fortuna non eccessivamente drammatico, il mio fisico è uscito devastato da questa esperienza.
Eppure, con immensa fatica, sono passati più di tre anni da quando le cellule di un giovane polacco hanno preso casa dentro di me.
Il fatidico giorno 0 per me è stato il 13 dicembre 2016.
Da allora sono una chimera, ho cambiato gruppo sanguigno e ho scoperto una nuova Marta.
Quante cose ho fatto da quel momento in poi? Forse troppe.
La mia storia con la malattia è rimasta al centro di ogni cosa, anche se non ce la voglio mettere è lì che mi guarda e mi ricorda che la mente e il corpo hanno piena memoria.

Io per prima, non ho mai voluto dimenticare, anzi ho sezionato il dolore e ora camminiamo fianco a fianco.
Questa è una seconda fase di accettazione, quando puoi piano piano tornare alla vita di tutti i giorni, ma scopri che non potrà mai accadere.
Ho bisogno di aria pulita, di volume moderato, di buon cibo, di musica, di persone con cui condividere il tempo volentieri. Altrimenti da sola sto molto bene, anche questo me lo ha insegnato la leucemia.
Ci si aspetta grandi cose da chi supera il tumore, oppure non ci si aspetta nulla.
Soprattutto gli altri pensano che tu torni quella di prima. Ti vedono di nuovo bella e attiva, ma non sanno quali sono i tempi di recupero per riuscire a reggere i cosiddetti ritmi normali.
Allo stesso tempo c’è una vivacità di pensiero incredibile. Vorrei trovare l’equilibrio.
Mi sembra sempre di avere poco tempo.
Anche la programmazione, da poco ripresa come pratica, è sempre a medio termine.
Se mi chiedete tra 10 anni come mi vedo, rispondo che intanto sarebbe un bel traguardo esserci ancora. A 33 anni non siamo in molti a rispondere così.
Se però mi chiedete come sono oggi e cosa vorrei fare, posso dire che la ricerca dell’autenticità è l’unica direzione che mi rappresenta.
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