Bud Spencer interpretato da Giuseppe Perdersoli
Di Eleonora Prinelli

È una frizzante mattina di fine inverno. Il sole tiepido mi scalda il viso mentre cammino rapida per le strade alberate di Roma. Alzo gli occhi e vedo un gabbiano solitario che sorvola la città e mi ricorda di essere così vicina al mare, che mi sembra di sentirne il profumo. Sto per incontrare Carlo Pedersoli, in arte Bud Spencer, mio grande eroe d’infanzia. Sono emozionata, lo ammetto. Ed ecco che lo vedo, in lontananza, seduto su una panchina nel verde meraviglioso di Villa Borghese. Lo raggiungo e lui si volta verso di me, guardandomi con quel sorriso dolce e paterno che ho sempre ritrovato nei suoi personaggi al cinema. Iniziamo.
Nella tua vita ti sei cimentato nel mondo della recitazione, dello sport, della musica e persino del volo. Sei un artista davvero poliedrico! C’è qualcosa che non hai provato a fare?
«Sono sempre stato molto curioso, fin da giovane. Per questo nella vita ho fatto davvero di tutto tranne, per motivi evidenti, il ballerino d’opera e il fantino d’ippica! Diciamo che sono stato un “dilettante di alto livello” in tutto ciò che facevo. In primis nello sport, dove nonostante mi allenassi pochissimo, vincevo le gare e battevo i record. Molti sostenevano che se mi fossi allenato con più attenzione e non avessi fumato, avrei potuto arrivare tra i primi posti nel mondo, invece sono stato un campione nazionale per dieci anni, ottenendo anche buoni piazzamenti in Europa, senza però riuscire ad arrivare in finale alle Olimpiadi. Mi sono cimentato anche nella composizione di testi musicali, pur non avendo mai studiato musica, e di questo mi rammarico. Durante le riprese in aeroplano di Più forte ragazzi! ho sviluppato invece, la passione per il volo. Avevo già 40 anni quando conseguii la patente da pilota, che devo ammettere, fu un mio grande vanto».
I western comici non sono l’unico genere che hai sperimentato, ma è quello che più di tutti ha lasciato un dolce ricordo anche nei giovani spettatori. Come ci si sente ad essere stato un idolo per intere generazioni nel mondo?
«Fu un successo del tutto inaspettato. I western comici nacquero con l’intento di ironizzare sul genere dei così detti “spaghetti western” e Lo chiamavano Trinità… ne fu il primo esempio dissacrante. In questi film c’era molta azione: si sparava molto e si parlava poco. Non c’era bisogno di essere un attore “professionista” o di parlare perfettamente l’inglese, infatti all’inizio della mia carriera (avevo già 40 anni) mi definivo un attore dilettante. Avevo però una fisicità prorompente che mi rendeva adatto a quei ruoli. E poi avvenne la magia del sodalizio con Terence Hill che tutti conoscono. Insieme trasmettevamo un calore e un’ironia ammiccante in pochi gesti: questo ci diede la possibilità di dare vita a una lunga carriera che ci cadde dal cielo… io non volevo neanche fare l’attore in principio! Arrivarono la fama e il successo internazionale e fummo catapultati nel mondo, prima con Dio perdona… io no! e poi con Trinità, nei primissimi anni 70. In seguito scoprii che in molti Paesi, come in Germania e in Ungheria, i nostri film incassavano persino più di James Bond».
In Chi trova un amico trova un tesoro affermi: «Non c’è cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo». Perché pensi che spesso ti venisse assegnato il ruolo di burbero dal cuore d’oro? È la tua indole nella vita di tutti i giorni?
«Non sono per nulla burbero in realtà, ma sicuramente ho interpretato dei personaggi che incarnavano i miei valori. Con Trinità capimmo che quando vestivamo i panni dei cowboys l’equilibrio tra i protagonisti stava nell’avvenenza estetica ed acrobatica di Terence Hill, in contrapposizione al mio divertente “colpo in testa”. D’allora quelle caratteristiche divennero personali e ci seguirono nella nostra carriera. Anche quando più tardi recitai senza Terence, in film come Piedone lo sbirro, il mio personaggio mantenne la stessa spettacolarità nelle azioni. Piedone fu per me un personaggio importantissimo, in cui misi molto della mia indole e che mi rivide a Napoli, mia città di origine, con tutte le caratteristiche tipiche dei partenopei. Fu anche la prima volta in cui potei recitare in italiano e con la mia voce. Tutti i film precedenti infatti, venivano girati in inglese e poi doppiati da doppiatori professionisti poiché, data la grande mole di lavoro che mi investì, non avevo il tempo materiale di tornare a Roma per i doppiaggi. Il che è paradossale, se pensiamo a quanto sia importante oggi per gli attori dimostrare di essere artisti a 360 gradi. Il pubblico all’epoca, mi dimostrò invece un affetto e una vicinanza che prescindeva da questa tecnicità».
Il grande pubblico ti conosce come Bud Spencer, anziché Carlo Pedersoli. Com’è nato il tuo nome d’arte?
«Non avevo mai pensato di fare l’attore, perciò ero convinto che il mio primo film, Dio perdona… io no! sarebbe stato anche l’ultimo. E così, dal momento che ero già conosciuto come sportivo con il mio nome naturale, decisi di usare uno pseudonimo. Inoltre, quando si comprese che il film era un buon prodotto e poteva essere venduto in tutto il mondo, nacque l’esigenza per i protagonisti di avere un nome inglese, come spesso avviene. Anche Terence Hill è lo pseudonimo di Mario Girotti, nome naturale del mio compagno di avventure. La scelta del mio nome d’arte fu semplice: amo la birra Budweiser, mentre Spencer Tracy è uno dei miei attori preferiti. Dalla loro unione nacque Bud Spencer. Tuttavia Dio perdona… io no!ebbe un tale successo che quel nome mi rimase cucito addosso per sempre».
Com’era la comicità ai tuoi tempi rispetto ad oggi?
«Io e Terence potemmo prendere esempio da grandi maestri del passato, come Charlie Chaplin o Stanlio e Olio, che facevano della loro gestualità la trama della propria interpretazione. A differenza di altri grandi attori italiani che legavano la propria comicità alla battuta dialettale, difficilmente traducibile in altre lingue, la nostra ironia era gestuale e poteva essere compresa da tutti. Si trattava di una comicità sottile e complessa, perché far ridere con un gesto, un’occhiata o una smorfia non è così banale. Il mio personaggio, ad esempio, era divertente perché il pubblico iniziava a ridere prima ancora di vedere quello che avrei fatto sullo schermo! I nostri film, apparentemente leggeri, trasmettevano in realtà dei valori che potevano essere riconosciuti da tutti, che riunivano più generazioni e che facevano ridere senza offendere nessuno. Questo li ha resi senza tempo».
Quali messaggi vorresti trasmettere ai giovani che oggi si apprestano a trovare la propria strada?
«Penso che lo sport sia fondamentale per imparare a rispettare l’avversario e le regole della vita. Conserverò sempre un grande ricordo della mia gioventù sportiva, perché è stata il fondamento di tutta la mia esistenza. Oggi invece, mi sembra che ruoti tutto attorno al denaro, all’apparenza e a qualche like in più sui Facebook, cosa che faccio un po’ fatica a comprendere. Tuttavia devo ammettere che i miei nipoti mi hanno convinto ad entrare nel mondo dei social, dove mi diverto a interloquire con i fan sparsi per il mondo! Mi hanno detto che hanno creato anche un videogioco su Bud Spencer e Terence Hill, ora che ci penso…».
Pensi che la risata e la leggerezza possano essere d’aiuto quando si attraversano dei momenti difficili nella propria vita?
«Penso di sì, ma è un argomento delicato e soggettivo. Ho ricevuto testimonianze da parte di persone che hanno trascorso lunghe degenze in ospedale, ridendo con i miei film. Di questa cosa mi sorprendo e sono felice, perché vuol dire che il mio personaggio è riuscito a creare un’empatia tale con il pubblico, da dare un po’ di sollievo. La comicità ovviamente non può risolvere i problemi, ma ridere fa bene a tutti. Per questo credo che nella vita si debba sempre credere in se stessi, ma senza prendersi troppo sul serio».