Per volare lontano, devi avere radici – Intervista alla psichiatra Erica Poli

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Di Sarah Kamsu

Erica Poli è medico psichiatra, psicoterapeuta, counselor, criminologa e perito per il Tribunale di Milano. Direttore scientifico di Efp Group, è membro di diverse società scientifiche, docente e autrice di numerosi libri, tra cui Le emozioni che curano, Mondadori 2019.

A lei ci rivogliamo per approfondire l’intricato tema del rapporto padre-figlio.

Dottoressa, è giusto che un figlio segua la strada tracciata dai genitori o è importante provare a scegliere percorsi diversi?

«Questa domanda tocca un punto cruciale dello sviluppo dell’individuo. Non c’è giusto o sbagliato, il punto è tirare fuori l’unicità di ciascuno. Per avere delle ali che ti portino a volare, anche lontano, devi avere delle radici molto forti. Così come l’albero, per crescere e diventare grande, ha bisogno di una radice profonda e solida. Questo significa che è importantissimo per ciascuno di noi aver coltivato e instaurato una relazione profonda con le nostre radici, averle accolte. Non si può scegliere di prendere un’altra strada, senza aver riconosciuto le proprie origini. Bisogna accettare di appartenere a quella determinata storia, che ti parla della sostanza di cui tu sei fatto. Se si compie questo cammino di conoscenza, allora si crea armonia con la propria storia personale. Questo permetterà di andare anche lontanissimo, perché il filo dentro di te non è spezzato. Uno dei più grossi problemi di chi sta male è che ha dovuto rinnegare la propria radice, questo crea disarmonia e fragilità».

In che modo i genitori possono indicare strade false, illusioni o proiettare aspirazioni personali sul figlio? 

«Questo è l’altro versante della questione. Da una parte c’è la fatica di onorare la nostra radice, i nostri padri. Dall’altra c’è la difficoltà di accettare l’unicità dei figli. È un gioco di opposti. I genitori spesso fanno fatica a vedere il figlio come individuo unico, originale, trasformandolo piuttosto nella proiezione dei propri bisogni, delle proprie frustrazioni. Si riconosce in lui il modo di dare senso alla propria vita, lo si usa come fonte di gratificazione personale, di rivalsa. Per non arrivare a questo, il genitore dovrebbe avere fatto dentro di sé il proprio percorso interiore, aver già affrontato il tema del senso della sua vita, aver già accettato ciò che lui è, come individuo. Più il genitore sarà avanti in questo percorso più sarà in grado di farlo nei confronti del figlio».

Come può un figlio riuscire a riconoscere modelli, comportamenti, esempi e/o valori falsi, sbagliati di un padre? E come può rifiutarli/trasformarli nella sua vita?

«Quando un figlio viene al mondo necessariamente dipende dai genitori. E non solo per i bisogni primari. Ma anche per quelli collegati al contatto, al riconoscimento, alla relazione. È il tema dell’attaccamento. Quando un figlio, e spesso succede, arriva a identificarsi per esempio nel padre aggressore, violento, lo fa per preservare l’attaccamento. Quando ci sono dinamiche di questo genere, valori disfunzionali, comportamenti dannosi, il percorso di riconoscimento e trasformazione è dolorosissimo. Perché passa da dover sentire tutto quello che avresti dovuto ricevere e che non hai ricevuto. Ma è necessario. Non si deve passare attraverso il giudizio, o la condanna. Se condanni tuo padre, condanni una parte di te. Noi siamo totalmente condizionati da ciò che giudichiamo e questo manovra i nostri comportamenti. La strada della liberazione invece, è quella dell’amore. È difficile, ma non impossibile. È la strada dello stare in quello che c’è: non nego niente, rimango presente a me stesso, accetto di sentire le emozioni che provo. Più accolgo, più sarò in grado di liberarmi dal condizionamento, di smettere di essere figlio di quella storia e voltare pagina. È la strada del significato originario della parola “comprendere”. Non si tratta di giustificare, ma di abbracciare. Posso vedere mio padre, la sua violenza, posso accogliere il fatto che questo è stato mio padre. Posso abbracciare la sua storia, così da non alimentare le emozioni distruttive. Non negare la rabbia, ma attraversare il mio percorso».

C’è un comportamento giusto?  

«Non c’è un comportamento “giusto” o “sbagliato”.  Riguarda sempre come ti relazioni alla tua storia. Non devi giudicarla, perché così facendo giudichi te stesso. In questo sta la responsabilità di tutti noi, come esseri umani. Più riesci a cogliere luce/ombra, bene/male, più allarghi la tua coscienza, più sei in grado di comprendere. Come con la malattia. Non si può comprendere tutto, ma si può stare dentro a quello che c’è, essere presente e attraversarla, trasformarla».

Erica Poli, psichiatra, psicoterapeuta, counselor (Foto: tedxreggioemilia.com)

Quando uno è un buon padre, quando uno è un buon figlio?

«Non è facile. Credo che essere un buon padre significhi essere capaci di creare le condizioni migliori per far crescere il proprio figlio, proteggendolo, custodendolo, ma nel rispetto della sua identità e individualità. Senza indurlo, senza costringerlo, senza manovrarlo ad essere altro da sé. Essere un buon figlio credo significhi invece affrontare le proprie radici, scavare nel terreno profondo della propria storia e riconoscere da dove si viene».

Quali sono i principali problemi del rapporto padre – figlio?

«Jacques Lacan parla di “evaporazione del padre”, intendendo la scomparsa della Legge, il tramonto dell’autorità. L’archetipo maschile è quello della regola, del confine. È l’energia terza che crea il triangolo, che spezza la simbiosi del rapporto madre-figlio, che porta il figlio nel mondo, nella realtà. Il suo è il ruolo del limite, del contenitore. Ma nel corso del Novecento i consueti contenitori sociali vacillano. L’individuo afferma sì il diritto alla sua libertà, guadagna la sua libertà, decade il modello del “padre -padrone”, ma in questo passaggio i padri si ritrovano allo sbando, umiliati, non capaci di essere quel muro che contiene, non capaci di trasformare il proprio ruolo, di costruire un nuovo modello. Che sia al servizio, che sostenga, che protegga. La figura del padre moderno dovrebbe essere la figura che sorregge il femminile mentre questo accoglie il piccolo. E non si parla di generi sessuali, ma di energie, di archetipi». 

È padre solo il padre biologico o è padre anche chi rappresenta un «maestro di vita» per l’altro?

«Non solo il padre biologico, ma è padre colui che diventa maestro di vita. Anche una donna può essere padre. È padre l’archetipo padre. È padre colui che incarna quell’archetipo».

Quale metafora o simbolo descrive per lei il rapporto padre – figlio?

«Sicuramente la figura dell’albero e delle radici. Così quella del contenitore che non solo delimita, ma che abbraccia. Io sono inoltre molto legata all’immagine dell’Iliade quando Ettore, che sa che sta andando a morire, va a cercare moglie e figlio per salutarli e li trova fusi in un abbraccio avvolgente. Ettore fa per chinarsi, ma la donna lo ferma, invitandolo a togliersi l’elmo, che spaventa il piccolo – figura del padre padrone -; Ettore posa quindi l’elmo, prende il bambino, non lo abbraccia -ruolo della madre – ma, tenendolo saldamente con le mani, lo alza al cielo. Questa è la mia immagine del padre, colui che saldamente ti sorregge e ti porta fuori, nel mondo».

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