Di Giulia Russo
La chiamano Golden hour, arriva qualche momento prima del tramonto e porta con sé una luce diffusa, morbida, meravigliosamente calda. È il momento più bello della giornata: poso gli strumenti da lavoro, chiudo il cancello della domus alle mie spalle e mi lascio immergere in questa città antica che diventa magicamente dorata.
La Casa del Bicentenario si affaccia sul decumano massimo, la strada più importante di Ercolano in quanto collegamento tra la parte orientale della città e quella occidentale dove gli edifici pubblici venivano raccolti nel cosiddetto Foro.
Cammino e immagino l’ombra dei tendoni tesi tra il muro e i pali di legno che dovevano essere conficcati nel terreno battuto: così i proprietari delle botteghe definivano lo spazio dei loro banchi di vendita. Qui, infatti, la strada non era più animata dal passaggio caotico dei carri sul basolato, ma dalla sinfonia di suoni, odori e colori tipici del mercato cittadino. L’insegna «ad Cucumas» è testimone di come l’invito a curiosare all’interno della bottega non avvenisse solo tramite il vociare dei mercanti, ma anche attraverso l’affissione di pubblicità. In questo caso, l’oste aveva fatto dipingere sul pilastro d’ingresso quattro brocche, cucumae appunto, di colore diverso indicando le tipologie di bevande in vendita e il loro prezzo. Una pubblicità rimasta oggi eternamente affissa.
Arrivo quindi alla Sede degli Augustali, dove i pavimenti rivestiti di marmo e gli affreschi di quarto stile mi rendono impossibile non tagliare l’angolo entrando direttamente nell’edificio. Quando piove poi, anche solo il pavimento d’ingresso diventa di una bellezza indiscutibile: si saturano i colori e magicamente compaiono i vari frammenti di marmo di forme e colori tutti diversi. Le facce dei visitatori rimangono sempre molto sorprese quando le guide lo dimostrano versando a terra un goccio d’acqua dalla loro bottiglietta. Ed ecco quindi che, nella mia risalita verso l’ingresso, esco sul terzo cardo tornando sul basolato, complice delle mie cadute più divertenti degli ultimi anni. D’altronde qui è facile distrarsi.
Quasi all’incrocio tra il cardo e il decumano inferiore, sulla destra si trova uno degli scatti più rubati del sito: un thermopolium, un punto di ristoro, essendo frequente già ai tempi dei romani pranzare fuori casa. Si tratta di un locale aperto direttamente sulla strada, quello che ne rimane oggi è un bancone rivestito in marmo da cui venivano serviti bevande e cibi caldi dalle giare in esso incassate.
Confesso, la foto da moderna bartender l’ho fatta anche io.
Sono quasi alla fine della risalita e guardando giù dal moderno ponte di collegamento, vedo i resti dei magazzini portuali e dei ricoveri per barche che si affacciavano su quella che era la spiaggia.
Arrivo quindi al punto di vista che preferisco in assoluto: la città vista dall’alto e il profilo del Vesuvio a fare da sfondo. Nelle giornate di sole, la sua sagoma diventa talmente nitida da sembrare quasi cucita sul cielo, forse anche dato dal fatto che i cieli di Ercolano diventano di un azzurro talmente pulito e puro da sembrare quasi immobili, da campione. Quando il tempo si guasta, invece, gli stessi custodi scherzano commentandolo come se dipendesse dallo stato d’animo del vulcano così, effettivamente, quando si alzano i nuvoloni sul cielo grigio, è un attimo tornare a quel 79 dopo Cristo.
È Plinio il Giovane a darcene testimonianza storica, poiché riuscì ad osservare l’attività vulcanica dalla sua stessa terrazza a Miseno, nella baia di Bacoli. Due fasi: la prima che con un boato vede una colonna di quindici chilometri di materiale piroclastico alzarsi in cielo e riversarsi con una pioggia di lapilli e pomici sulle più lontane Pompei e Stabia. La seconda, da cui Ercolano non poté essere risparmiata, seguita da nubi ardenti di circa quattrocento gradi a ottanta chilometri orari e colate di fango che finirono per seppellire la città sotto venti metri di materiale vulcanico. Pappamonte, è stato chiamato così questo strato di tufo, che essendo più tenero è stato in grado di garantire la conservazione dei materiali più deperibili come legno, alimenti e papiri: grande ricchezza da riconoscere confrontando il sito con quello di Pompei, dove invece è bruciato tutto.
È proprio tra queste due fasi che si colloca l’invano tentativo di trovare soccorso scappando verso il mare dei trecento fuggiaschi ritrovati nell’antica spiaggia. Un’immagine terribile, ancora oggi davanti ai nostri occhi dopo lo scavo archeologico e la scoperta dei corpi ammassati accanto ad alcune imbarcazioni.
Inizia a scendere il sole, devo andare, ho appuntamento al molo con il tramonto. Una routine a cui torno sempre ad affezionarmi già sentendone la mancanza del fine cantiere. Una routine che indubbiamente arricchisce le mie giornate, dando un senso al mio lavoro. Un lavoro che non posso non amare perché non mi fa stancare mai di trovare la bellezza anche nei posti più remoti.
Un lavoro che in uno degli scenari migliori mi fa entrare in «ufficio» guardando il luccichio del mare tra Capri alla mia destra e Ischia alla mia sinistra.
Un lavoro reso possibile dalla collaborazione tra un ente privato americano come il Getty Conservation Institute di Los Angeles, l’Herculaneum Conservation Project e l’ente di tutela locale PaErco, a cui io sarò eternamente grata.
Oggi, dopo quasi dodici anni di ricerca, il tablinum della Casa del Bicentenario torna ad essere visitabile e vi garantisco che è di una bellezza indescrivibile. Io ci tornerò di sicuro, voi?