Parasite – Commedia o thriller, mette sullo schermo lo scontro fra ricchi e poveri

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Di Sarah Kamsu

Parasite: entrando al cinema non sapevo cosa aspettarmi, sono uscita dicendo che non me lo sarei mai aspettata. Non è solo un thriller. Inizia leggero, poi si trasforma in satira, assume il mood della commedia, fino a diventare di colpo un thriller da far paura e si conclude come una tragedia dal finale inaspettato e davvero spiazzante. Tutto nasce dalla domanda: «Cosa accadrebbe se due famiglie, una povera e una ricca, si incontrassero e si scontrassero?» Il regista Bong Jooh-ho lo descrive, mettendo in scena una Seul divisa.
Le fogne straripano? Ai ricchi nulla cambia, tutto procede secondo normalità, mentre la casa della famiglia povera viene totalmente allagata e resa inagibile.
Questa è un’abitazione di pochi metri quadrati in cui è quasi impossibile muoversi, scattare fotografie senza toccare gli spigoli; la famiglia si guadagna da vivere alla giornata con piccoli lavoretti sottopagati ed è costretta a sfruttare il wi-fi del vicino di casa. Un padre, una madre, un figlio e una figlia poco più che adolescenti. Dall’altra parte, una famiglia di ricchi, lontana e quasi immune da tutte le difficoltà, dallo sporco, dall’inquinamento e sembra, addirittura, dal dolore. Per i ricchi ogni problema sembra spianarsi. Un padre, una madre, un figlio di meno di dieci anni, una figlia adolescente, la loro governante e l’autista. Una villa immensa con un giardino minimalista.
Il regista non vuole restituire il tipico cliché dei film coreani, in cui i benestanti sono avidi e trattano le persone con violenza e crudeltà.
No, la famiglia ricca di Parasite si comporta apparentemente bene con gli altri, ma emerge un profondo disprezzo verso i poveri e la povertà.
Parasite porta dentro il cinema la discriminante fra i ricchi e poveri: l’odore. La «puzza» di povertà resta incollata ai poveri fino al midollo, non si riesce a togliere, è «come l’odore di coloro che viaggiano in metro, come la puzza di straccio lurido appena bagnato».
Bong Jooh-ho, regista coreano cinquantenne, riesce a incollare gli spettatori allo schermo dall’inizio alla fine. Laureato in sociologia, fin da giovane si appassiona al cinema. Nel 2000 il suo primo film. Nel 2019 con Parasite vince 4 statuette agli Oscar 2020: miglior film, miglior film internazionale, migliore regia e miglior sceneggiatura originale. Cast quasi totalmente asiatico. «Il lavoro più creativo è quello più personale, io seguo il mio istinto e la mia sensibilità per incrociare generi diversi. Prima di tutto, io sono un narratore di storie», afferma Bong Joon-ho.
Agli Oscar si è presentato sul palco incredulo, guardando la statuetta teneramente, e ringraziando con gioia ed entusiasmo ha dichiarato: «Grazie, berrò tutta la notte». 

IL COMMENTO

Di Edoardo Grandi

Commedia? Thriller? Grand guignol? Dramma? Splatter?

Le definizioni si possono sprecare per l’ultimo lavoro di Bong Joon-ho, trionfatore degli Oscar 2020, ma nessuna da sola può coglierne il punto.

Il regista (anche autore del soggetto e co-autore della sceneggiatura) imbastisce una storia straordinaria dove si intrecciano in maniera inestricabile le vicende della povera famiglia Kim e della ricchissima famiglia Park, in un congegno tanto complesso quanto rigorosamente orchestrato.

L’essenza della trama è nota: i Kim, con una serie di geniali truffe, si insinuano nella vita dei Park riuscendo a sfruttarli e arrivando a minarne l’esistenza, proprio come fa un parassita con un altro organismo vivente.

Il film prende avvio con toni da commedia che non fanno risparmiare le risate, salvo virare poi lentamente e impercettibilmente verso un registro più drammatico. Attenzione, però: niente è mai come sembra, e nel continuo evolversi delle situazioni, colpi di scena, sorprese e trovate geniali, si toccano tutti i generi immaginabili, come accennato all’inizio.

Ma non si deve nemmeno credere che si tratti di puro virtuosismo cinematografico, data la serie di spunti profondi che vengono proposti.

Il tutto si dipana con alcune costanti: prima fra tutte, quella dello scontro sociale tra poveri che campano di espedienti e i super ricchi che sembrano vivere in un idilliaco mondo a sé stante. In poche parole, una sorta di lotta di classe condotta in modo originale e feroce, che può essere letta come metafora dei nostri tempi ovunque nel mondo: travalicando il microcosmo dei Kim e dei Park, viene facile pensare all’esiguo numero di privilegiati plurimiliardari in confronto all’ingente massa di diseredati del Pianeta, e persino di una classe media che pare in crisi dappertutto.

Ai derelitti Kim, impossibilitati a trovare lavori decenti, la truffa (per quanto «simpatica» e divertente per lo spettatore) sembra l’unica via d’uscita, ma non è detto che a lungo termine paghi, e a un certo punto irrompe a sorpresa anche una crudele lotta tra poveri.

Uno spettacolo godibilissimo e accattivante, girato con maestria, che fa riflettere e diverte, a dimostrazione che cinema d’impegno e intrattenimento possono benissimo coesistere nella stessa opera.

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