Di Stefania Spadoni
Gennaio 2015, trapianto autologo di cellule staminali, IEO. Il mio primo isolamento.
Novembre 2016, trapianto allogenico da donatore, Humanitas. Il mio secondo isolamento.
Marzo 2020, Covid-19, casa. Il mio terzo isolamento.
Esco solo per comprare il cibo e le medicine, questa volta non ci sono infermieri e oss (operatore socio sanitario) a portarmele in camera, questa volta non c’è neanche mia madre che, ansiosa alle 11 del mattino, attende fuori dalla porta chiusa di poter entrare in reparto solo per 30 minuti, previa adeguata sterilizzazione delle mani e vestizione con camice, cuffia, guanti, mascherina e sovra scarpe tutto monouso, tutto a disposizione in gran quantità, non come oggi. Mia madre, con mio padre abitano in un altro comune, in un’altra regione, impossibile sostenerci se non tramite lo schermo dell’iPhone. Esco sola, e mi ritrovo in un supermercato pieno di persone sole, di occhi soli. Chi può indossa una mascherina, gli altri una sciarpa a coprire bocca e naso. Una volta ero io quella strana, con la mascherina, tutti mi guardavano pensando a quale terribile malattia infettiva avrei potuto attaccare loro, invece semplicemente proteggevo il mio sistema immunitario distrutto. Oggi ci guardiamo tutti con sospetto, la malattia infettiva c’è veramente ed è pericolosa, eppure ci riconosciamo, tutti sulla stessa barca senza distinzioni. Non ci sono più il sano e il malato, siamo tutti esseri umani fragili e ci capiamo.
Mi sento sicura nelle mie azioni, conosco il rituale di protezione a memoria, so che se sbaglio saranno guai. Mi muovo con scioltezza eseguendo una danza che ho imparato molto prima delle persone che mi circondano e che so mi permetterà di rimanere sana. Vorrei tanto poter empatizzare come facevo coi miei compagni in ospedale, ma ci è richiesto il distanziamento sociale, l’isolamento a casa. Lo rispetto. Penso che la mia casa, le mie cose, sono sempre meglio che l’ospedale. Resisto, so che tutto questo diventerà qualcos’altro, prima o poi. Ogni tanto ricordo a me stessa che non sono malata, che questa paura, questa quarantena è di tutti, respiro profondamente, cerco nella mia memoria la strada che mi ha condotto fino a dove ero un mese fa, in mezzo alla gente, nel mondo. Ci sono già passata, so come si fa e penso: «non sarà facile ritrovarsi e mettere da parte le paure, perché il corpo ha memoria dei traumi e bisognerà abituarlo di nuovo ad abbracciare, con calma, un passo alla volta».