Di Federica Colombo
Il tempo ha la magica dote di sfumare i ricordi. Molte cose dei miei giorni da paziente oncologica sono andate perdute, il che sinceramente, è un gran bene. In questi giorni, certamente i più drammatici degli ultimi cinquant’anni, come la definisco io, «la nostra ora più buia», è tornato alla ribalta nella mia mente il ricordo dei miei periodi da immunodepressa, durante la chemio, che vuol dire che il mio corpo non era in grado di fronteggiare gli agenti patogeni. Ecco che in quei giorni la mascherina (oggetto di tanta bramosia ai giorni nostri) diventava una compagna di vita. Quando ti ammali e temi per la tua sopravvivenza, di mascherine te ne metteresti anche tre, una sopra l’altra (è ironico, farlo sarebbe inutile ndr). Ora mi chiedo, se tutti noi siamo coscienti che il COVID19 sia la più grande guerra mai affrontata dalla mia generazione, perché, nonostante un bollettino di morti giornaliero angosciante, troviamo giovani gaudenti a ritrovarsi nei pochi parchetti rimasti aperti?
Siamo animali dotati di un istinto di sopravvivenza, pertanto proteggere se stessi è naturale, non ci pensi due volte. Limitare la tua vita nell’ottica di proteggere gli altri, è tutta un’altra storia. All’inizio i media hanno sminuito, d’altronde «muoiono solo anziani con comorbidità». Come se queste «entità», affogate nel sensazionalismo dei media come numeri di una partita di tennis, non fossero nostri padri, madri, nonni. Persone che muoiono sole, senza l’affetto dei propri cari. I giovani pieni di salute e convinzione di onnipotenza, così come i meno giovani che si appellano al fatalismo, dimenticano cosa voglia dire salute pubblica, Stato, Nazione. Proteggere i più deboli è la base di qualsiasi civiltà che voglia fregiarsi dell’aggettivo «civile». C’è una grande differenza, quindi, tra la mascherina che indossavo io, e quella che dovrebbe indossare un cittadino con il raffreddore in questo momento storico. Filosoficamente ed ontologicamente è un passaggio successivo: dalla mia sopravvivenza, alla collettività.
Dall’animale che si protegge, al superamento di questo stato ancestrale per aderire a delle norme comunitarie di quello che vuol dire essere «società». Peraltro la Costituzione dice che la libertà di un individuo finisce dove si nuoce ad un altro individuo, ecco perché proteggere gli altri adottando stili di vita conformi alle direttive emanate dagli enti governativi non è solo una buona pratica etica, ma anche un dovere, ed ancor prima di questa, il non nuocere ad altri rientra tra le norme del cosiddetto Diritto Naturale. Proteggiamo noi stessi, ma prima di tutto, proteggiamo gli altri. Non c’è Decreto Ministeriale che possa, ne debba, sostituire l’etica di ciascuno. Spero che ci ricorderemo di quest’esperienza e faremo tesoro di questa lezione per costruire nelle future generazioni, fin dal principio, la base dell’educazione civica, affinché in futuro, se malauguratamente dovesse ripetersi una simile circostanza, non si trovino a doverle imparare in 24 ore lamentandosi di uno spritz mancato.