Di Giorgio Giudici
I giornali e i servizi alla televisione ne parlano chiaro, tanto che la frase anticipata da un hashtag diventa subito uno slogan: iorestoacasa. Eppure sembra che il messaggio sia arrivato in sordina. Poche orecchie pronte a recepirlo, troppo poche. Riaggiorno la casella email a colpi di tic ossessivo-compulsivi. Niente, nessuna email dal capo. La chat coi colleghi diventa un delirio tra i «se», i «ma», i «forse». Niente, aspettiamo. Aspettiamo una risposta che però tarda ad arrivare e quindi, vittima della solita quotidianità, salgo sull’ennesimo treno che mi porta in ufficio: non so se rimanere più sorpreso dall’indifferenza del capo, o dalla testardaggine di altri miei colleghi già loggati alle loro scrivanie.
Poi capisco, il messaggio è ovvio: non abbiamo tempo per il virus, il lavoro non può fermarsi.
Ed è lì che capisco che su quel treno ci risalirò a fine giornata, ma che per un po’ ne farò a meno.
Perché sì, a prescindere dai ruoli e dalle gerarchie, in situazioni come queste bisogna più che mai essere responsabili delle proprie scelte.
Capisco che sono fortunato abbastanza per avere un tipo di lavoro che posso gestire da casa. Capisco che la tutela della salute pubblica è una questione seria e che non è un capriccio dietro cui nascondermi per non sedermi a quella scrivania. Capisco che la mia professionalità non è dettata dalle ore spese in ufficio, ma dalla presenza che offro indipendentemente dallo studio, dal treno, da casa o da Marte. Capisco, tra l’altro, che lo smart working diventerà presto la mia prigione, perché non sarà più l’orario di un treno a sancire la chiusura del laptop. Una reperibilità erroneamente data per scontata, ma una responsabilità e un senso del dovere che gridano alle orecchie sorde di chi rimane convinto che il lavoro debba essere dimostrato con la presenza fisica in ufficio.
Io il lavoro vado avanti a farlo continuando a rispettare le scadenze ma, allo stesso tempo, non riesco a non guardare con amarezza l’irresponsabilità del capo e dei miei colleghi nella loro imperterrita lotta contro qualcosa di più grande di loro.
E no, non mi sento in colpa nel dire «resto a casa», mi sento, al contrario, finalmente fiero di aver preso una posizione.