Quando la vita non è solo un diritto – Intervista a Giada Lonati

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Di Chiara Malinverno

Giada Lonati, medico palliativista, da dieci anni è direttore sanitario di Vidas, associazione milanese che dal 1982 si occupa di accompagnare i malati nell’ultimo tratto della vita. Al Bullone racconta come si può affrontare il dolore, anche alla luce dell’emergenza coronavirus.

Vidas come sta vivendo questo periodo di emergenza? 

«Il coronavirus ci ha costretti a cambiare anche il modo di affrontare il fine vita. Le cure palliative sono fatte di contatti e di sorrisi, mentre oggi dobbiamo avvicinarci ai pazienti con guanti e mascherine. Questo rende difficile esprimere la nostra vicinanza. Poi anche noi abbiamo dovuto riportare tutto all’essenziale, facendo rimanere a casa alcuni operatori e volontari». 

Avete dovuto aprire le vostre strutture ai malati di coronavirus?

«Per ora no, anche se potrebbe accadere. Oggi il nostro lavoro è finalizzato a supportare i nostri colleghi in prima linea, fornendo consulenze palliative. Il nostro sistema sanitario era impreparato anche a rispondere ai bisogni palliativi di cui molti pazienti covid hanno bisogno».

Ha parlato di cure palliative, in cosa consistono?

«Le cure palliative sono un approccio terapeutico, si occupano di curare quando non si può più guarire. Occuparsi del paziente alla fine della vita significa anche occuparsi della sua famiglia. Dobbiamo affrontare un dolore globale e non solo fisico, per questo abbiamo bisogno di vari specialisti. Non si muore da pazienti, ma come persone». 

L’emergenza coronavirus ha tolto anche la possibilità di accompagnare i propri cari verso la morte. Come è possibile gestire questo lutto?

«Il non poter accompagnare i propri cari nell’ultimo momento ha sconvolto anche noi. Vidas ha fatto dell’accompagnamento nell’ultimo tratto della vita, il suo scopo. Oggi le morti che avvengono in Vidas sono quasi un privilegio, rispetto alla morte lontana, cui costringe il coronavirus. Finora abbiamo dovuto esercitarci all’accompagnamento alla morte individuale. Con il coronavirus, la morte è diventata un’esperienza collettiva. Il paradosso è che non si può morire in compagnia. Questa è un’esperienza scioccante che le famiglie dovranno essere aiutate a superare». 

Oggi i medici sembrano impreparati a gestire il carico emotivo cui sono sottoposti. Un medico palliativista ha strumenti migliori per affrontarlo?

«Questa esperienza sta mettendo in difficoltà anche noi. La medicina palliativa ha sempre visto la morte come una parte della vita, cosa spesso dimenticata dalla medicina tradizionale. Ora i medici si trovano ad applicare la medicina delle catastrofi, che impone l’applicazione del principio della giustizia distributiva: non possiamo usare tutto per tutti, se non c’è abbastanza. Molti colleghi si trovano a prendere decisioni importanti a cui nessuno li aveva preparati. Chi decide ha davanti una persona, i suoi occhi, e ne è responsabile. Per tutti i medici ci sarà un tempo necessario di rielaborazione di queste fatiche». 

Ha parlato di giustizia distributiva e di scelte. Si può scegliere chi curare in base all’età?

«L’età non è l’unico criterio discriminante per compiere delle scelte che devono tener conto di diversi paramenti, solo uno di questi è l’età. Anche in questo momento di emergenza, in cui le risorse vanno distribuite fra i pazienti, si sceglie in base alla possibilità di garantire un risultato di sopravvivenza. Non c’è nessun cinismo».

Quanto conta l’età al termine della vita?

«Nella mia esperienza, ho incontrato giovani molto più pronti di anziani. Le persone davvero pronte sono quelle capaci di affidarsi a quello che accade loro, quelle che pensano “se questo è per me, è quello che io posso vivere”. Loro muoiono da protagonisti. Una cosa è certa, la compiutezza di un’esistenza non si misura in anni».

Lei si occupa di pazienti che non hanno più possibilità di guarire. Come scegliere se continuare a guarire?

«Se c’è uno spazio di guarigione deve essere perseguito. Bisogna però aver chiaro che ogni guarigione può comportare un costo e non tutti siamo in grado di sostenerlo. Il medico deve offrire la guarigione e indicarne i costi, senza scegliere per il paziente».

Qual è il confine fra possibilità e impossibilità di guarire?

«I confini non esistono, esistono solo i limiti e la consapevolezza di essere limitati. Ognuno deve conoscere il suo limite. Quello che può essere limite per me, può non esserlo per un altro».

In questa scelta che ruolo ha la famiglia?

«Alla fine della vita il rapporto famiglia-paziente si intensifica, ma non dobbiamo dimenticare che i diritti del paziente non sono gli stessi della famiglia: al paziente spetta scegliere. Da medici, creiamo un forte legame anche con le famiglie. All’università mi hanno insegnato che bisogna sviluppare la giusta distanza fra medico e paziente, oggi a mio figlio che studia medicina, dico che bisogna sviluppare la giusta vicinanza. Non bisogna avere paura del dolore dell’altro. Condividere il dolore è un’esperienza di ricchezza straordinaria».

Questo legame fra medico e famiglia rimane anche dopo la morte del paziente?

«I palliativisti devono essere capaci di sfilarsi dalle relazioni, rimanendo a disposizione. I legami che si creano con le famiglie sono intensissimi, ma devono finire. Detto questo, siamo umani e inevitabilmente con alcune famiglie si creano legami duraturi». 

Stare vicino significa curare i sentimenti dell’altro. Lei parla spesso di manutenzione dei sentimenti, cosa significa?

«Significa lavorare per riappropriarsi delle relazioni. Noi vorremmo che le cose belle durassero per sempre e che le brutte finissero subito, in realtà entrambe hanno i loro tempi. Dobbiamo essere capaci di stare dentro anche alle relazioni più faticose. È emozionante vedere persone capaci di piangere insieme». 

Da queste risposte esce una donna forte e consapevole. Come fa a sopportare le fatiche del suo lavoro?

« Il mio lavoro è la strada giusta per me, è un percorso spirituale che mi ha spinto alla ricerca del senso della vita. Sentire il patire dell’altro è un’iniezione quotidiana di coraggio: se ce la possono fare loro, riuscirò anch’io».

Ha trovato il senso che cercava?

«Sono un’apprendista. Si muore e si vive da apprendisti. Io ne so quanto voi, ho solo vissuto di più».

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