Le riflessioni dei cronisti de Bullone su questi giorni di dolore e sull’incognita del dopo Coronavirus. Che cosa ci lascerà? Non sarà più come prima. Anche il modo di intendere la salute cambierà come cambieranno relazioni e convivenze. Prepariamoci alla sfida
Di Federica Colombo
L’emergenza sanitaria legata al Coronavirus ha posto il nostro Sistema Sanitario Pubblico di fronte a una sfida inimmaginabile, che ha in parte rivelato alcune delle criticità rimaste mascherate in un sistema che, nonostante il taglio dei fondi e le ristrettezze in termini di risorse umane e strutturali, era rimasto comunque efficiente e garantiva uno standard qualitativo alto in quasi tutte le Regioni. Voglio premettere che come Italiana e come laureanda in Medicina, sono orgogliosa di far parte di uno Stato che garantisce l’assistenza sanitaria gratuita a tutti i propri cittadini, un aspetto che chi inneggia alla privatizzazione e al modello americano, sembra dimenticare, ma che fa del nostro Stato un elemento di civiltà che dovrebbe sempre rimanere nella mente dei suoi cittadini, i quali sovente dimenticano quanto siano fortunati.
Sono convinta che difficilmente sarebbe stato possibile fare di meglio per affrontare la pandemia, ma è evidente che da questo evento qualcosa cambierà, pertanto mi sono posta la domanda: cosa cambierei? Non sono certo un’esperta di organizzazione sanitaria, né ho le competenze e le conoscenze in materia di gestione economica, per cui la mia speculazione potrebbe essere più simile a una teoria filosofica che ad un reale piano esecutivo. Inizio dai nostri ospedali: sono grandi, abbastanza efficienti e soprattutto in grado di rispondere in maniera eccellente ai malati in fase di acuzie (infarti, ictus, traumi, appendiciti…), spesso anche assicurando interventi tecnologicamente all’avanguardia e di gestire terapie complesse come quelle oncologiche. Sono entrata in contatto con reparti sia medici che chirurgici di assoluto spessore e avanguardia.
Il punto critico, a mio avviso, è ciò che avviene dopo un ricovero: i pazienti vengono dimessi spesso ancora in condizione di disagio psicofisico e magari gioverebbero di un percorso riabilitativo, che attualmente nella maggioranza dei casi, non è perseguibile. Tornare sul territorio in maniera inadeguata, mina un po’ quello che altrimenti sarebbe un risultato di cura tra i migliori al mondo. Esistono inoltre i «casi sociali», specie nei grandi reparti di medicina interna: pazienti con condizioni intermedie di gravità che permangono settimane in reparto, perché semplicemente non hanno dove altro andare, con conseguenze economicamente rilevanti (un letto ospedaliero ha un costo molto alto). Quello che immagino sono strutture poste a metà tra domicilio e ospedale, suddivise tra assistenzialità media e leggera, che permettano day hospital e ricoveri lunghi, con equipe in grado di supportare il paziente in un contesto protetto anche da un punto di vista psicologico e sociale, integrate con figure di tipo riabilitativo occupazionale e fisioterapico. Penso a strutture a misura d’uomo, dentro ai centri cittadini e con possibilità di visite e uscite con i familiari. Credo che il decentramento verso queste strutture potrebbe essere economicamente compensato dal minor costo giornaliero di un tale tipo di assistenza (essendo necessari meno medici, infermieri e materiali) e da ciò che si ricaverebbe nel migliorare l’effettiva riabilitazione del malato nella società. Concludendo, alla base della mia idea piramidale di Sistema Sanitario, c’è il servizio di medicina generale che è stato anche l’ambito messo più in difficoltà dalla pandemia. Ritengo che si potrebbe ripensare a questa figura accorpando i vari ambulatori (come già si propone di fare) in piccoli centri in ciascun quartiere, così da essere raggiungibili anche a piedi dagli anziani. Più medici assieme potrebbero coprire turni notturni e fornire alla collettività un vero servizio filtro, così da poter alleggerire i pronto soccorso. Sarebbe ideale che in sede fossero disponibili almeno qualche infermiere di quartiere e un punto prelievi. Un modello di cura basato sulla capillarità dell’assitenza.