In evidenza Alberto Mantovani. Foto di repertorio di Humanitas
Le riflessioni dei cronisti de Bullone su questi giorni di dolore e sull’incognita del dopo Coronavirus. Che cosa ci lascerà? Non sarà più come prima. Anche il modo di intendere la salute cambierà come cambieranno relazioni e convivenze. Prepariamoci alla sfida.

Di Eleonora Prinelli
Nel quarantottesimo giorno di quarantena, ho l’onore di intervistare il professor Alberto Mantovani, medico oncologo che ha dedicato la sua vita professionale alla ricerca scientifica nel settore dell’Immunologia e dell’Oncologia. Direttore scientifico dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e Professore Emerito di Humanitas University. È il ricercatore italiano attivo più citato nella letteratura scientifica internazionale e uno dei 10 immunologi più citati a livello internazionale.
La domanda che tutti si stanno ponendo è: quando ne usciremo?
«Nessuno di noi può saperlo. Io stesso sogno di tornare sul ghiacciaio, alla Scala, alle feste di Handicap… su la testa! (associazione dedicata a giovani con disabilità ndr). Penso che un punto di passaggio fondamentale sarà il vaccino. Grazie al vaccino noi oggi non ricordiamo un mondo con la polio. Quindi sì, ne usciremo, ma senza dubbio ci dovremo adattare a vivere con delle precauzioni per un certo tempo».
Si sta parlando molto anche dei test sierologici per l’individuazione degli anticorpi nel sangue…
«Sul mercato esistono più di 100 tipi di test sierologici. Molti di questi non sono stati validati dal punto di vista della specificità e dell’accuratezza del risultato. Tuttavia ce ne sono anche di buoni. I test ci dicono se una persona ha sviluppato o meno gli anticorpi contro il virus, ma nel caso di positività non significa assolutamente che si sia protetti dalla malattia. I numeri del contagio sono solo la punta dell’iceberg. È importante sapere quello che non fanno: non danno una patente d’immunità all’individuo! Anche l’OMS afferma che non si può dire a una persona che ha anticorpi che non si ammalerà o che avrà una certa percentuale di ammalarsi. La mia grande preoccupazione è che un uso non appropriato dei test sierologici possa essere un incoraggiamento a comportamenti irresponsabili».

Perché una persona dovrebbe fare il test sierologico allora, se questo non la può preservare in futuro?
«In primis può essere chiesto di fare il test per valutare quante persone sono state esposte al virus, per il bene della salute pubblica e per avere la fotografia dell’iceberg. Inoltre è utilissimo all’interno degli ospedali: in Humanitas, ad esempio, diamo la possibilità a tutto il personale di fare il test sierologico per sapere qual è la situazione e restituiremo il risultato alle persone spiegando loro che cosa vuol dire. Quindi il vantaggio individuale di chi farà il test c’è: se si è positivi, si valuterà la presenza del virus e si sarà seguiti e accompagnati in questa fase, per almeno un anno, da professionisti qualificati».
Lei ha detto che chi diffonde notizie di soluzioni mirabolanti senza evidenza scientifica, tradisce malati e medici in prima linea. La comunità scientifica ha fornito pareri contrastanti…
«Premetto che in questa situazione i dati mi ricordano ogni giorno quanto poco io conosca l’immunologia stessa. Questo virus è nuovo e fa cose inattese. All’inizio sembrava che il virus si replicasse e uccidesse le cellule del polmone profondo, mentre gli ultimi dati ci dicono che infetta anche le cellule delle vie aeree superiori, motivo per cui è così infettivo. A febbraio non lo sapevamo. Anche a livello diagnostico riscontriamo dei problemi con le tecnologie che abbiamo oggi. Per ora sappiamo solo che questo virus è un professionista nel sopprimere le risposte immunitarie e nel deviarle, ma capiamo ancora poco. Per non andare fuori strada è fondamentale assumere un atteggiamento di umiltà e di aderenza a ciò che impariamo dai dati e dai nostri pazienti. Fortunatamente, così come vi sono dei falsi profeti, ve ne sono anche di veri, e a casa nostra. Lo dimostra il fatto che, il Journal of American Medical Association, abbia identificato come uno degli “eroi” di questa emergenza il prof. Maurizio Cecconi, medico intensivista italiano di Humanitas, per essere stato un vero profeta. Quando vide i primi pazienti di covid19, iniziò a mobilitare i colleghi di tutto il mondo per prepararsi alla tempesta e tenne un webinar di 7 ore, al quale si connessero 130mila medici in tutto il mondo. Si ritiene che questo abbia salvato molte vite. Cecconi è comparso raramente nei media italiani, eppure credo che dovremmo esserne orgogliosi come Paese».
Pensa che vi siano state delle falle nella gestione dell’emergenza sul territorio?
«Non ci sono dubbi che siano stati fatti degli errori tragici sul territorio. Penso anche alla lenta chiusura della zona bergamasca, poiché nella partita contro il virus, pochi giorni di ritardo hanno fatto la differenza. Credo sia doveroso identificare i punti di debolezza, al di là delle polemiche, per imparare dagli errori. Credo non si debba dimenticare però, che gli ospedali di Milano, pubblici e privati, hanno fatto fronte comune, facendo miracoli. I medici, anche i più anziani, e gli infermieri hanno fatto il loro dovere sul territorio. Non potrò mai dimenticare i loro volti a fine turno. Grazie a loro e agli ospedali che hanno marciato mano nella mano, abbiamo finito un primo tempo drammatico della partita, con gravissime perdite, ma siamo ancora in piedi».

Possiamo aspettarci altri virus simili a questo in futuro?
«La comunità scientifica aveva avvisato il mondo sul rischio di nuove pandemie molto prima di Bill Gates, da almeno 20 o 30 anni. Se vogliamo continuare a dare assistenza sanitaria a tutti, dobbiamo affrontare il problema dell’efficienza e della sostenibilità, cioè dobbiamo usare molto bene le risorse. In questa emergenza ho visto il mio ospedale comportarsi come un organismo vivente. Noi non avevamo un reparto di infettivologia. L’Humanitas si è organizzato e ha cambiato faccia. Progettare strutture adattabili ai momenti di crisi ci permetterà di affrontare le emergenze in modo sostenibile».
Di cosa ci dovremo ricordare, una volta superata l’emergenza?
«Che inevitabilmente siamo a rischio. Il governo inglese ha stimato che intorno alla metà di questo secolo, rischiamo di avere 50 milioni di morti da batteri resistenti. Questa epidemia ci ricorda quanto la ricerca scientifica costituisca una cintura di sicurezza per l’umanità. Se si parla di arrivare a un vaccino nel giro di 2 anni, anziché dei tradizionali 8, è perché si sono costruite le basi molto prima, in seguito ad altre epidemie più o meno abortite. Infine, la mia speranza è che non ci si dimentichi delle facce degli intensivisti e degli infermieri a fine turno. Nel momento più drammatico dell’emergenza, il prof. Cecconi diceva che fra un respiratore e un infermiere ben addestrato, lui sceglieva quest’ultimo. Ricordiamoci di coltivare, remunerare e rispettare questo patrimonio umano».
