I ragazzi del Bullone per le esperienze che hanno vissuto sono sempre stati vicini ai loro angeli custodi: i medici e gli infermieri che li hanno curati. Ora il mondo sta riscoprendo questi professionisti del bene che stanno combattendo contro l’invisibile virus
Di Stefania Spadoni
L’Italia chiama, c’è bisogno di posti letto, di nuove rianimazioni per una malattia infettiva apparsa all’improvviso e che fa paura: il Covid-19.
Humanitas, un importante policlinico con tante specialità, risponde.
«Abbiamo dovuto reinventarci in un tempo molto breve», racconta Elena Garofalo, Responsabile Infermieristica Area Covid dell’ospedale Humanitas di Rozzano. Un ruolo nuovo di pacca; sono 7 i reparti convertiti in Covid. L’ospedale nei momenti più critici ha dovuto gestire fino a 250 pazienti positivi insieme. Quando le chiedo che ruolo hanno gli infermieri in questa complessa situazione, risponde: «Gli infermieri stanno svolgendo un ruolo fondamentale. Abbiamo cominciato a lavorare in un momento di incertezza e nel pericolo, mettendo a disposizione tutta la nostra competenza e l’etica che ci contraddistinguono e soprattutto la passione che ci porta a rivolgerci verso l’altro».
Durante un’intera giornata passata in ospedale, un paziente incontra e si confronta con il medico forse per 10 minuti, tutto il resto del tempo è nelle mani degli infermieri che hanno quindi un ruolo determinante sia a livello clinico che umano. L’infermiere empatizza col paziente e con i suoi familiari, anche in un reparto Covid, in questo momento ancor di più, essendo vietate tutte le visite. «Ci siamo dovuti adattare a una nuova forma di comunicazione, i pazienti vedono solo i nostri occhi». Il nuovo rituale della vestizione per entrare in un reparto Covid è regolamentato da una sequenza ben precisa, volta a salvaguardare l’operatore stesso, ma cosa accade negli altri reparti, dove non sempre i dispositivi di sicurezza sono adeguati e il rischio di contagio esiste ugualmente? Si sentono storie non belle percorrere la nostra penisola.
«È fondamentale che non ci sia contagio fra gli operatori», spiega Elena, «perché il virus si diffonde molto rapidamente. Noi siamo fortunati perché Humanitas ha sempre avuto la disponibilità dei dispositivi di protezione, questo ha garantito la nostra sicurezza. Li abbiamo comunque razionalizzati, non facendone spreco». E poi il turno finisce, si torna a casa e ci si relaziona coi propri cari. In che modo? «Sicuramente la paura c’è stata, soprattutto all’inizio, ma ci riserviamo, soprattutto in famiglia, di mantenere alcune buone regole, come il lavaggio delle mani, spogliarsi dei propri abiti e non abbracciare o baciare i congiunti, perché potremmo essere asintomatici». Sono nate nuove relazioni di amicizia in ospedale fra gli operatori Covid, come spesso accade in mezzo alle difficoltà. «Sicuramente ci sarà un prima e un dopo nell’approccio al lavoro, noi abbiamo grande capacità di adattamento, dinamismo e flessibilità, ma questa emergenza ci ha stravolto la vita lavorativa», afferma Elena, «abbiamo avuto tantissimi decessi e questo ha messo molto in discussione i nostri obiettivi di cura. Le persone continuavano a morire, molti peggioravano molto velocemente e abbiamo dovuto comunicarlo ai parenti che non potevano stare vicino al proprio congiunto. Morire da soli: questo è stato il tema. Humanitas ha messo a disposizione un’assistenza psicologica, la fiducia e la collaborazione hanno rafforzato il nostro spirito di squadra». Moltissimi ex pazienti l’hanno seguita live in questa intervista, mandando messaggi di grandissimo affetto. Elena prima era la responsabile infermieristica dell’oncoematologia e quindi molti suoi ex pazienti sono più fragili e cercano in lei rassicurazioni. «Humanitas ha creato due percorsi diversi per differenziare i pazienti Covid da tutti gli altri, all’ingresso ci sono check point di controllo dove vengono fornite mascherine per proteggersi». Che dire… GRAZIE. «Siamo umani, uno diverso dall’altro, ma questa esperienza dovrebbe insegnare ad avere consapevolezza della nostra vita, e a non sprecare nulla di quello che abbiamo, spero insegni che esiste un benessere della collettività: se vi chiediamo di restare a casa c’è un motivo importante. Spero per il futuro ci sia veramente la consapevolezza del ruolo. Ricordiamocelo anche dopo il coronavirus. Abbiamo fatto errori, ma anche noi siamo esseri umani, abbiamo una responsabilità nei confronti degli altri. I media e la politica ci definiscono eroi, adesso. Spero se lo ricordino anche dopo. Il mio augurio è che ci sia una valorizzazione della professione, e che il mondo futuro sia meno medico-centrico, perché gli infermieri fanno la differenza nella sanità».