Illustrazione in evidenza di Riccardo Atzei
Di Don Paolo Alliata
Non mi ricordo più cosa vi stavo dicendo.
Ah, sì. Insomma, ieri sera vado a dormire con questa domanda in testa: «Milano nel 2030… come sarà Milano nel 2030?».
Io lo so che la pizza la sera non la digerisco più. Però ti potevi mai immaginare che da un calzone farcito venisse fuori Tolstoj? Perché appena chiudo gli occhi e Morfeo mi prende in braccio, dal fondo del mio sogno salta su il grande russo, mi si piazza davanti, manco fosse la Madonnina, apre il libro che si teneva sottobraccio e attacca:
«Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra su cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre perché nulla vi crescesse, per quanto vi estirpassero qualsiasi filo d’erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, la primavera era primavera anche in città».
Cerco di impressionarlo. «Questa la so, maestro. È l’inizio del vostro romanzo, l’ultimo». Ma quello non pare impressionato, si gira e se ne va.
Un innesco folgorante. Il mio sogno, dico. Ma anche quel romanzo, Resurrezione. Lo sto leggendo in questi giorni. (Allora forse non è solo colpa della pizza, penso io). Per quanto gli uomini ci si mettessero d’impegno a tener lontana la vita – la vita che scaturisce dal fondo delle cose, quella che previene i nostri sforzi sotto il cielo, quella che non dipende dal mio impegno e non si piega al mio controllo – quella trovava il modo.
La vita trova sempre il modo.
Vorrei comunicare il mio entusiasmo allo scrittore, mi metto sulle sue tracce, e intanto penso: Milano nel 2030 sarà quel che sarà, io non la so manco immaginare, però è certo che anche allora, come oggi, la Vita troverà il modo di farsi presente. Perché non dipende tutto solo da noi. E questo è un pensiero incoraggiante.
Poi Tolstoj non l’ho mica ritrovato: mi ritrovo in compenso in una grande libreria. Uno spettacolo. Mi dico: se questa qui è la Milano del 2030, fa piacere vedere che ce n’è qualcuna ancora. Vuoi vedere che l’amore per la cultura e la passione per il pensiero condiviso han trovato il modo di sopravvivere ai tagli del governo?
Mi passa accanto Gianni Rodari. Devo piantarla anche con il vino, mi dico. Quello intanto si mette a pescar libri da uno scaffale, e intanto ne smozzica una delle sue:
«Indovinami, indovino,/ tu che leggi nel destino:/ l’anno nuovo come sarà?/ Bello, brutto o metà e metà?/ Trovo stampato nei miei libroni/ che avrà di certo quattro stagioni,/ dodici mesi, ciascuno al suo posto,/ un carnevale e un ferragosto,/ e il giorno dopo il lunedì/ sarà sempre un martedì./ Di più per ora scritto non trovo/
nel destino dell’anno nuovo:/ per il resto anche quest’anno/ sarà come gli uomini lo faranno».
Da quale misterioso recesso di me stesso è salita questa filastrocca? Erano anni che non la sentivo. Da bambino mi incantava: la sfida di avere il mio destino tra le mani. I giorni e gli anni son tutti uguali, «dodici mesi, ciascuno al suo posto, un carnevale e un ferragosto». In fin dei conti, come dice qualcuno, non conta tanto quel che accade, quanto quel che facciamo di quel che ci accade.
Milano nel 2030 sarà quel che avremo voluto farne nel frattempo. Si respirerà l’aria che avremo scelto di respirare. Se oggi piantiamo alberi, tra dieci anni avremo ombra e ossigeno. Se spendiamo tempo energie e soldi nel coordinamento delle migliori energie educative esistenti sul territorio, ne raccoglieremo i frutti. Il buon Gianni scende dallo sgabello e mi guarda fisso. «Per il resto, anche quest’anno / sarà come gli uomini lo faranno», mi ripete. Io mi affretto a far cenno che ho capito, che lo abbiamo capito tutti. Lui alza il sopracciglio. Non mi pare di averlo convinto. Mi mette un libro tra le mani e se ne va.
Ora, io in casa ci sto pure bene, ma questa cosa dei muri comincia a pesarmi. Sarà per questo che abbasso lo sguardo e vedo che è la mia vecchissima copia del Gigante egoista. Stai a vedere che vien fuori Osar Wilde. Invece no, alzo gli occhi e sono in un giardino. Sono entrato nel racconto, lo capisco al volo perché sono un tipo sveglio. Eccolo lì, il Gigante che torna dalla Scozia, i bambini che scappano terrorizzati, e lui che si mette a tirar su il gran muro. Vabbè, niente di nuovo. Ah, il cartello però è diverso: ci ha scritto sopra «PORTI CHIUSI. CI PENSI L’EUROPA». Questa poi. Guarda che l’inconscio è davvero uno sconcerto. Penso sia andata così: che era tale l’asfissia che sentivo nei mesi prima del virus, tutti impegnati ad affilar le parole e i proclami, a stender fili spinati e a chiudere porti e frontiere, ad alzar la voce e a maneggiar la politica, che una parte profonda di me avrà associato il muro del Gigante al travaglio dei miei tempi. Mah, che associazione sgarbata.
Son lì a guardare il cartello, che un bimbo mi prende per mano e mi vuol dire un segreto. «Cosa c’è, piccolo?» e mi chino su di lui. Quello piglia aria, e poi butta fuori d’un fiato: «Il virus rafforzerà il nazionalismo, non quello etnico, ma un tipo di nazionalismo territoriale. Le persone che all’interno di un Paese si spostano dalle aree più colpite dal virus sono sgradite come qualunque straniero. Il governo chiederà di costruire muri non solo tra gli Stati, ma anche tra gli individui: il pericolo maggiore non è rappresentato dallo straniero, ma dal vicino di casa».
Gesù! ma dove vai a scuola? Poi mi ricordo che l’ho letto in giornata (prima del calzone) nell’articolo di un politologo europeo. Tende a veder buio all’orizzonte. Dice che il giardino del Gigante avrà muri non solo tutt’intorno, ma pure al suo interno. Il nostro è il tempo dei muri, non c’è dubbio, ma immaginare che si moltiplichino ancora, mi fa venire l’asma e l’angina pectoris.
Nel frattempo il bambino è sparito ed è sceso l’inverno. Fa un freddo biscio, con il vento del Nord che ruggisce sulle tegole e tutto il resto. Io credevo che nei sogni non ci fossero freddo e caldo. Avrò mica la febbre? No, saranno i peperoni – dopo la pizza, che era piccola. Manco il tempo di distrarmi, e vedo che la distesa di neve è diventata una pagina bianca. Il foglio intonso di un gran quaderno, e io ci sto sopra.
E mi sposto appena in tempo per evitare qualcosa che vien giù dal cielo sibilando. Mi è passata via una lettera dell’alfabeto! Non ho il tempo di indagare, che ne cala un’altra, e un’altra ancora, una tempesta di lettere e segni di interpunzione, come in quel racconto di Cechov che amo tanto (ma era meglio scritto che vissuto dal di dentro).
Insomma, va a finire che le lettere si sistemano là in fondo, si stendono sulla grande pagina su cui cammino. Corro avanti per scrutar l’oracolo, e cosa ti trovo? Quella poesia di Rilke:
«Con intensità io vivo, ora che il secolo va oltre./Si può avvertire il vento d’una grande pagina,/ sulla quale Dio e tu e io tracciammo segni/e che ora nell’alto si rigira, tra straniere mani./ Si può avvertire lo splendore di un suo lato nuovo,/ e su esso tutto ancora può avvenire./ Le silenziose forze saggiano la propria vastità./ E si guardano l’un l’altra, oscuramente».
Capisco. Lo capiamo un po’ tutti: sta avvenendo qualcosa di grosso, in questo tempo di pandemia. Il mondo apre gli occhi, «il secolo va oltre». Si gira pagina, «straniere mani» stanno girando il foglio. Straniere perché misteriose. Le mani di Dio? Del virus? Dei complottisti cinesi? Ognuno vede in quelle dita quel che gli pare, ma certo la pagina sta girando. E quel che scriviamo dipende, ancora una volta, da noi e dalle «silenziose forze» che ci accompagnano e ci abitano. Non dipende tutto solo da noi. Virus docet. Ma nessuno potrà fare la nostra parte al posto nostro.
Vabbè, sta di fatto che quando mi sveglio, stamattina, la prima cosa che vedo è la foto di Martini. Il cardinale, non il drink. Come sarà la Milano del 2030? Chissà. Ma la qualità di allora dipenderà assai, io credo, dalla qualità dei maestri che avremo avuto, e dalla qualità del nostro ascolto al loro verbo. Abbiamo bisogno di profeti. Di uomini e donne fecondi di immaginazione, che guardano lontano, che attingono alle radici dei tempi, alla linfa della storia… Uomini e donne che offrono parole maturate nel silenzio, che grondano passione, impegnano la vita. Che ci insegnino a farci le domande giuste.
«Non avere maestro è non avere a chi domandare e, in un senso ancora più profondo, nessuno davanti a cui porsi delle domande. Vuol dire rimanere rinchiuso nel labirinto primario che è la mente di ogni uomo in origine; chiusi come il Minotauro, traboccanti di un impeto che non può avere sfogo […] Ogni vita è in principio prigioniera, aggrovigliata nel proprio impeto. E il maestro deve essere colui che apre la possibilità, la realtà di un altro modo di vita, quella vera», (M. Zambrano).
Non so immaginare la Milano del 2030. Ma le «silenziose forze» saranno ancora all’opera, per liberarci dai nostri muri soffocanti, suscitare profeti, aprire spazi di lettura, intrecciare le energie migliori. Questa è la nostra speranza. Questa è anche la nostra responsabilità.
Comunque, la sera meglio pizze più leggere.